Una biografia provvisoria piena di verità, quella in cui Enrico Forte racconta se stesso.

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LATINA- La sincerità, in un uomo politico, non è una dote necessaria.

Enrico Forte ha scritto un libro, a due mani ed una voce. Le mani sono quelle dell’intervistatore ed editore, Mario Michele Pascale. La voce è la sua, è del Presidente della Commissione Lavori Pubblici della Regione Lazio.

Con l’immancabile mezzo sigaro Garibaldi, accomodato sulla poltrona rossa dell’Ikea, Enrico ha raccontato molto del sé privato e qualcosa di politico.

In primo piano emerge la verità, appunto, intorno alla natura dell’uomo. Egli è oltre gli schemi e gli archetipi costruiti dalla sua parte politica. Applica alla politica le idee e la cultura, compresa la più lontana dal suo emisfero: Junger, Pound insieme a Dossetti e a Carlo Marx.

Una sinistra nella Dc, non la sinistra Dc. Non aderirà mai al Partito Popolare, scegliendo i Cristiano Sociali di Ermanno Gorrieri, Carniti ed il Prof. Scoppola. Una politica che, dice Enrico, scusa l’errante e non l’errore: citando la Pacem in Terris di Giovanni XXIII, spiega che il cristianesimo salva sempre e comunque l’uomo.

Mi viene in mente una frase splendida di Publio Terenzio Afro: ” Homo sum: humani nihil a me alienum puto”. Enrico è cristiano come uomo, al netto della dimensione confessionale. Alla considerazione dell’intervistatore: “Dio non era ad Auschwitz, era in vacanza”, Enrico risponde che :” No. Dio era ad Auschwitz. Era presenta”.

Queste son parole di un  Uomo che ha dentro di sé, fino in fondo, la cultura cristiana ché, come scriveva Benedetto Croce, “non possiamo non dirci cristiani”.

Un passaggio da brividi quello in cui, senza colpo ferire, descrive i dolori della sua vita. La difficoltà del rapporto con la figlia a seguito della separazione. Sono momenti bui che appartengono anche alla mia, di vita. Mi emozionano terribilmente, quelle righe, perché penso che mio padre le scriverebbe tal quali.

Un libro sincero, lucido, autocritico (Enrico cita sempre il “Contributo alla critica di me stesso” di Croce) sul pd, la sinistra, i comunisti. “Se avessero governato loro non avremmo avuto la legge sul divorzio”, mette nero su bianco Enrico. Come dargli torto? Il Pci fu un partito conservatore, che non avrebbe mai compreso la grande virata dai diritti sociali a quelli civili della sinistra moderna.

Un giorno Oriana Fallaci regalò un quadretto ad Enrico Berlinguer. Vi era rappresentato un conclave. La grande fiorentina disse al Segretario Comunista :”Glielo regalo perché quei pretacci vestiti di rosso mi ricordano i vostri Comitati Centrali”. Berlinguer sorrise.

Una lettura sincera e generosa della grande tradizione del socialismo italiano, dai “Meriti e Bisogni”, alla stagione del Governo Craxi. Autocritica sulla “linea della fermezza”, vale a dire la scelta di non trattare con i rapitori di Aldo Moro. Gli unici ad opporsi, allora, furono Amintore Fanfani e Bettino Craxi il quale, anni dopo disse: “Ma fermezza verso che cosa? Fermezza verso l’inevitabile morte di Aldo Moro”.

Poi c’è Latina, naturalmente. Il geometra Corona che guarda lontano, guarda al futuro. Il Senatore Redi, restauratore della colonia veneta friulano romagnola. Poi Finestra, Zaccheo che, scrive Forte, aveva una visione ed un programma politico.

La destra economica distinta da quella politica. Latina ha scelto, forse ancora oggi, la prima. Il trionfo del civismo come pregiudizio dei latinensi verso la politica dei partiti, delle tradizioni più o meno consolidate.

“Che fare?”, citando un Lenin che a Forte piace molto? Uscire fuori dai recinti, dalle prigioni schematiche operando il grande salto verso la contemporaneità.

Sono pagine sincere quelle in cui Enrico racconta, tra nuvole di fumo toscano, gran parte della sua vicenda umana.


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