I nomi finito e infinito fanno parte del nostro lessico quotidiano. Ad essi spesso diamo dei significati vari che sono relativi al contesto in cui ci si trova a discutere o a questionare. E, allora, cercherò di fare una disamina sui vari significati che si trovano sia in letteratura che in campo scientifico.
Lo scrittore argentino Jorge Louis Borges (1899 – 1986) in Metamorfosi della tartaruga (da Altre inquisizioni) ha riportato il suo significato di infinito: “C’è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui limitato impero è l’etica; parlo dell’Infinito”.
Mentre lo scienziato tedesco Albert Einstein (1879 – 1955) ha sostenuto in modo ironico che “Solo due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima”.
Il poeta latino Lucrezio Caro (~98 – 55/50 a.C.), nel libro I del poema De rerum natura, ha scritto
Nunc extra summam quoniam nil esse fatendum,
non habet extremum, caret ergo fine modoque.
Nec refert quibus adsistas regionibus eius; usque adeo, quem quisque locum possedit, in omnis tantundem partis infinitum omne relinquit. |
Ora siccome si deve ammettere che oltre il tutto nulla c’è,
non ha un estremo, per cui è privo di una fine e di una misura. Né importa in quali zone di esso tu ti collochi; fino a tal punto, qualunque luogo ciascuno occupi, in tutte le direzioni lascia altrettanto un tutto infinito. |
E ha immaginato, anche, che un arciere, postosi ai confini dell’universo, lanciando una freccia, questa proseguiva il moto verso l’infinito.
L’ olandese Baruch Spinoza (1632 – 1677) nell’Ethica è stato il primo filosofo che, in epoca moderna, ne ha affrontato il significato più profondo sostenendo che il concetto di infinito è la possibilità della ragione di auto-generarsi in modo autonomo avendo come base le leggi eterne sue proprie.
E poi c’è stato pure L’infinito, uno dei canti più celebri di Giacomo Leopardi (1798 – 1837): Sempre caro mi fu quest’ermo colle, /e questa siepe, che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./ Ma sedendo e mirando, interminati/ spazi di là da quella, e sovrumani/ silenzi, e profondissima quiete/ io nel pensier mi fingo; ove per poco/ il cor non si spaura./ E come il vento/ odo stormir tra queste piante, io quello/ infinito silenzio a questa voce/vo comparando: e mi sovvien l’eterno,/ e le morte stagioni, e la presente/ e viva, e il suon di lei. Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Dopo di lui, la poetessa americana Emily Dickinson (1830 – 1886) lo ha immaginato, associandolo a quello di eternità, come una separazione di mari in altri mari senza riva con il mare è esso stesso riva:
As if the Sea should part
And show a further Sea – And that – a further – and the Three But a Presumption be – Of Periods of Seas – Unvisited of Shores – Themselves the Verge of Seas to be – Eternity – is Those – |
Come se il mare separandosi
mostrasse un altro mare – e questo – un altro – e i tre solo un segno fossero – di un infinito di mari – non visitati da riva – Se stesso fosse riva del mare – L’eternità – è ciò – |
In effetti, se ne chiedessimo a chicchessia la definizione, non si avrebbe una risposta univoca, tant’è che il significato di infinito riportato nell’Enciclopedia Treccani acquista varie accezioni che dipendono dal contesto culturale in cui si opera: «nel linguaggio comune significa “infinite volte, senza limiti, per lunghissimo tempo … Nel pensiero filosofico e scientifico, il concetto di infinito ha oscillato tra le due definizioni formulate da Aristotele: l’infinito potenziale (o sincategorematico), ciò di cui si può prendere sempre e solo una parte, non sostanza quindi ma processo, la cui esistenza è implicata dalla non esauribilità delle grandezze sottoposte alle operazioni dell’aggiunta di una parte sempre nuova e della divisione in parti sempre nuove (tale nozione è fondamentale nell’analisi matematica, in quanto l’infinito è qui oggetto di calcoli positivi come limite di certe operazioni sulle grandezze e sui numeri); e l’infinito attuale (o categorematico), che sarebbe invece una qualità o sostanza, considerato spesso con sospetto per le difficoltà e le contraddizioni che sembrava comportare (per esempio, le antinomie concernenti la parte e il tutto nelle classi infinite, cioè i cosiddetti paradossi dell’infinito …) e comunque inteso come una vera grandezza, anche se di tipo particolare, caratteristica degli insiemi infiniti studiati dalla moderna teoria degli insiemi».
Il concetto di infinito, infatti, nella teoria degli insiemi, sviluppata dal matematico tedesco Georg Cantor (1845 – 1918) alla fine del XIX secolo, è riferito ad un insieme che ha la potenza di infinito quando esiste una corrispondenza biunivoca con un suo sottoinsieme. Ad esempio, l’insieme dei numeri naturali N (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, …) è costituito da due sottoinsiemi propri, quello dei numeri pari P (2, 4, 6, 8, 10, 12, 14, 16 …) e quello dei numeri dispari D (1, 33, 5, 7, 9, 11, 13, …).
Se, ora, si pone la corrispondenza tra l’insieme N e il suo sottoinsieme proprio P risulterà che, ad ogni elemento n di N, corrisponderà, nel sottoinsieme P, uno ed uno solo elemento 2n (cioè il suo doppio) e, viceversa, dato un elemento 2n del sottoinsieme P ad esso corrisponderà, nell’insieme N, uno e uno solo elemento n (cioè la sua metà). Gli insiemi N e P si dice allora che sono equipotenti, cioè hanno lo stesso numero di elementi, ovvero i numeri naturali N sono “tanti quanti” sono i numeri pari: un paradosso dell’infinito, come riporta l’Enciclopedia Treccani L’equipotenza come operazione di confronto tra due insiemi gode della proprietà riflessiva (ogni elemento di un insieme dato è in relazione con se stesso), di quella simmetrica (assegnata una coppia di elementi di un insieme dato risulta che il primo è in relazione con il secondo e il secondo con il primo) e di quella transitiva (assegnato un insieme, se un primo elemento è in relazione con un secondo elemento e questo con un terzo elemento, allora il primo elemento è in relazione con il terzo). Si precisa che, in matematica, a locuzione “uno e uno solo” sta ad indicare l’unicità e l’esistenza.
Lo stesso Galileo Galilei, in merito ai paradossi dell’infinito scriveva che i numeri quadrati perfetti (1, 4, 9, 16, 25, 36, 49, 64, ecc.) pur essendo di numero inferiore agli interi (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, ecc.) hanno la stessa potenza di questi ultimi, cioè sono infiniti (come la trattazione precedente tra l’insieme dei numeri interi e il sottoinsieme dei numeri pari P o dispari D). Ovviamente, Galileo non parlava di insiemi e di sottoinsiemi, i cui concetti sono stati sviluppati circa due secoli dopo.
Nella geometria dei frattali (il termine frattale fu usato, nel 1975, dal polacco Benoit Mandelbrot (1924–2010) nel libro Les Objects Fractals: Forme, Azard et Dimension; e sono elementi della Teoria del caos), la curva di Koch (1904) esprime una lunghezza infinita in uno spazio finito, tant’è che applicando tale geometria al corpo umano si ha una lunghezza infinita – basti pensare ai capillari sanguigni -, che occupa uno spazio in uno spazio circoscritto, qual è il corpo umano.
Può essere che l’infinito sia compreso nel finito? Un altro paradosso!
Per fortuna che ci vengono incontro, si fa per dire, i due teoremi di incompletezza del matematico austriaco Kurt Gödel (1906 – 1978): il primo dimostra che qualsiasi sistema che permette di definire i numeri interi è necessariamente incompleto: esso contiene affermazioni di cui non si può dimostrare né la verità né la falsità; il secondo dimostra che nessun sistema, che sia abbastanza coerente ed espressivo da contenere l’aritmetica, può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza.
Francesco Giuliano
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