LATINA- Roberto Gervaso era un maestro. Lo era senza la spocchia tipica degli intellettuali che si credono infallibili.
Gervaso coltivava l’arte del dubbio. S’era esercitato in tal senso amando e leggendo incessantemente i classici latini e greci. In particolar modo Seneca e Lucrezio.
Insieme ad Indro Montanelli, suo venerato maestro, scrisse una Storia d’Italia non accademica e che, viste le infinite ristampe, è entrata nel cuore degli italiani.
Aforista caustico ed ironico, cinico quanto basta amava l’Italia. Un po’ meno gli italiani. Venerava l’Urbe di Roma antica e quella del boom economico, la Dolce Vita che Via Veneto e le stradine intorno Piazza di Spagna erano un brulicare di scrittori, poeti, giornalisti, attrici ed attori.
Ha amato amare le Donne, finché non ha incontrato Vittoria che ha posto fine alla sua vita di dongiovanni impenitente.
Ha tenuto per anni una rubrica quotidiana su “Il Messaggero” che non vedevo l’ora di leggere, incantato com’ero dalla sua sterminata cultura che spaziava dalla filosofia alla medicina.
Già, perché con Roberto Gervaso condividevamo una croce, anzi due: la tendenza a soffrire di depressione e l’ipocondria, che lui definiva a ragione patofobia giacché l’ipocondriaco è il malato immaginario di Molière, mentre il nostro è terrore delle malattie.
Grazie ai suoi articoli ho avuto l’onore di conoscere e di essere visitato dal Prof. Franco Romeo, nume tutelare della cardiologia italiana e Primario di Tor Vergata.
Mancheranno la fantasia e l’estro che coloravano, al pari di un suo Borsalino o degli immancabili papillons , i fogli di giornale nei quali scriveva.
Concludo con una delle tante frecce contenute nella sua faretra di geniale aforista: “ Nessuno è abbastanza intelligente da far capire a un cretino che è un cretino”.
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