Roberto Scacchi, presidente Legambiente Lazio

ROMA – Il futuro è un rifiuto. Un gioco di parole che sintetizza, però, la situazione italiana e del Basso Lazio. Se è vero che l’Italia si pone in Europa a divenire sul tema dei rifiuti il primo paese dimostratore di bioeconomia, accelerando i processi in atto, ripartendo dall’agricoltore inteso non come estrattore di prodotti dalla terra ma come custode dei suoli, invece in terra pontina e ciociara si è in controtendenza, con la cultura della diffidenza che regna sovrana allorquando si affronta il tema del rifiuto riconvertito in energia. Certo, in tutti questi anni è stata sempre annunciata la politica di chiudere il ciclo dei rifiuti in un ambito strettamente territoriale, disattendendo però poi ogni logica dietro le rimostranze di comitati ambientalisti più o meno spontanei, di rallentamenti della burocrazia pubblica o di mancanza di fondi d’investimento privati davanti a spese che lievitano col trascorrere del tempo.

In provincia di Latina e Frosinone alcune aziende hanno ottenuto il placet autorizzativo per realizzare impianti che trasformano il rifiuto in energia (da impianti a biomasse a quelli biometano), superando gli esami imposti dalla trafila pubblica ma poi si scontrano con il sospetto dei singoli Comuni e dei comitati ambientalisti perché la parola rifiuto e impianto di produzione d’energia richiama alla memoria rischi indelebili (viene sempre citato il disastro di Seveso, datato luglio 1976…). Eppure l’emergenza rifiuti è quotidiana, come quotidiano è il rifiuto di risolvere la criticità. Lo stesso motivo per cui oggi parliamo ancora di emergenza rifiuti, di cicli territoriali non chiusi e di discariche (ri)aperte. Esiste una soluzione? Come se i rifiuti (quelli secchi) sparissero per un gioco di prestigio, mentre da una parte si levano peana per la green economy e poi i progetti per trasformare l’umido in energia hanno più ostacoli di quanti ne ha dovuti affrontare Ercole. Cui prodest? Ma andiamo con ordine.

Abbiamo interpellato sul tema il presidente di Legambiente Lazio, Roberto Scacchi, un professore di ricerche dell’Enea, Vito Pignatelli, e un professore universitario d’ingegneria ambientale, Alessandro Corsini. volutamente abbiamo scartato l’ipotesi di coinvolgere alcuni attori in causa che ai più potrebbero apparire come estremamente di parte, come l’imprenditore e il rappresentante di comitati ambientalisti.

“Rifiuti zero? Allora, impianti mille”. Non usa giri di parole Roberto Scacchi, presidente di Legambiente Lazio, consapevole che il problema rifiuti nel Lazio esiste e che va risolto, non certo nascondendo la polvere sotto il tappeto, vale a dire spedendo i rifiuti altrove, a fronte della produzione annua di 3 milioni. La prima regola resta quella di produrre meno rifiuti, poi alzare il livello della raccolta differenziata (“oggi siamo attorno al 47%, con percentuali risibili a Roma e risultati insufficienti da Latina e Frosinone” sottolinea Scacchi), infine rigenerare i rifiuti in nome dell’economia circolare.ù

Roberto Scacchi, presidente Legambiente Lazio

“La soluzione resta realizzare impianti per frazioni, ma manca una politica omogenea sui territori di rigenerazione plastica e cartacea, oltre che di organico. E questo è un aspetto serio da affrontare, poiché un terzo dei rifiuti è rappresentato dall’organico, un numero destinato a crescere per via della lotta alla plastica e al trend di utilizzo di materiale ecosostenibile” afferma. E sì, perché strano a dirsi ma anche questi oggetti monouso biodegradabili vanno smaltiti in appositi impianti. Oggi tutti siamo stati colpiti lungo la via ambientalista di Damasco ma la criticità resta, e la soluzione pare che non possa essere quella di smaltire il rifiuto con sistemi fai-da-te o con compostiere di comunità oggi richiamate dalle varie amministrazioni. Restano in piedi i progetti di impianti industriali che utilizzano la frazione organica col sistema della digestione anaerobica, producendo biometano e fertilizzante di qualità, “con gli esempi validi di Latina Scalo, Tuscania e Anzio, esaltando effettivamente l’economia circolare. Oggi siamo contro la Tav, le trivelle in mare, i gasdotti, poi però usufruiamo di energia, quindi ritengo una sciocchezza se non una follia non usufruire di impianti che producono biometano ricavato da Forsu, destinata a crescere per la politica di plastic free” precisa il presidente di Legambiente Lazio. Parliamo di industrie che agiscono al chiuso, con un impatto ambientale molto basso, con la gestione di 30mila tonnellate all’anno, che celebrano i virtuosismi dell’economia circolare in nome del rifiuto riconvertito: dalla frazione organica si produce energia rinnovabile e digestato che, processato, torna alla terra come concime, così al contempo, in questo modo, si sostituisce l’importazione e il consumo di energia e fertilizzanti non rinnovabili, poiché quelli provenienti da miniere sono in via di esaurimento. Ancora: il biometano, che è appunto destinato ad alimentare le auto, è un carburante pulito e contribuisce alla riduzione delle polveri sottili che sono invece emesse nella combustione dei carburanti tradizionali. Resta da convincere l’ecoscettico, perché seppure sono molti coloro che sposano soluzioni ambientaliste “poi si alzano polemiche ideologiche inutili – afferma Scacchi -. I cittadini vanno sì educati ma anche coinvolti subito quando il privato ha volontà di realizzare un impianto, è importante anche la scelta della localizzazione che non può insistere vicino fiumi esondabili o aree archeologiche, capiamo anche che la politica è stata assente nel passato nella gestione dei tre grandi buchi neri di Malagrotta, Guidonia e Borgo Montello ma gli impianti che ricavano energia dalla frazione organica vanno fatti, e alla svelta”.

I rifiuti umidi, ecco la Forsu, la frazione organica dei rifiuti solidi urbani

E avviene, talvolta, che ambiente e tecnologia si sposino. Vito Pignatelli, responsabile del Laboratorio Biomasse e Biotecnologie per l’Energia dell’ENEA, si definisce profeta certo rispetto alla sua visione. “L’Italia nel 2030 sarà un Paese affrancato dalle logiche di consumo di carburanti ricavati quasi esclusivamente da combustibili fossili”, afferma.

Vito Pignatelli, ricercatore Enea

Detta così ha un suono anche affascinante, soprattutto quando si pensa alle logiche che persistono ancora oggi nel Basso Lazio, abbracciando le province gemelle di Latina e Frosinone. Il ricercatore, impegnato da anni nel campo della produzione e impiego sostenibile di energia da fonti rinnovabili, punta deciso sulla sua agenda: forte crescita numerica di impianti a biometano, aumento della raccolta differenziata, ma anche trasparenza nella comunicazione nei confronti dei cittadini. “Vi siete mai posti la domanda di cosa dovremmo farci di quei terreni inquinati e che ai più risultano inservibili per la comunità? – continua Pignatelli – Semplice: utilizziamoli per colture destinate non all’alimentazione, ma alla produzione di energia, come ad esempio il topinambur, raccogliamo in un dato periodo i fusti ricchi di zuccheri di questa pianta e utilizziamoli come trinciato negli impianti a biogas per ricavarne energia. Questa pianta è particolarmente ricca di zuccheri e quindi ottimale per la fermentazione, si adatta a qualsiasi tipo di terreno ed è una coltura perenne. So già dove volete andare a parare, ma vi tolgo io i dubbi: gli elementi inquinanti restano nella parte sotterranea”.

Non è proprio la soluzione finale per risolvere le criticità energetiche e inquinanti del Bel Paese, ma può dare un contributo significativo. “La soluzione finale sarebbe proprio costruire impianti nelle vicinanze di questi terreni, in grado di produrre energia dalle biomasse che vi vengono coltivate, perché così elimineremmo anche il fattore del trasporto che ha un forte impatto ambientale” sorride. E questo è un altro aspetto importante, sia per ridurre l’inquinamento atmosferico, sia per cominciare ad affrancare l’Italia da una dipendenza estera per il consumo energetico nel settore trasporti, che ancora oggi è appannaggio di fonti fossili (fortemente inquinanti).

La pianta del topinambur è particolarmente efficace per produrre energia

E come? “Recuperando terreni oggi inquinati o abbandonati. Pensate che negli ultimi 40 anni abbiamo perso 5 milioni di ettari di aree agricole, e allora riconvertiamo quei terreni, rigeneriamoli, progettiamo impianti per la produzione di biometano. Noi oggi in Italia produciamo biogas in più di 1.900 impianti, per la maggior parte   alimentati con materie prime di origine agricola o da reflui zootecnici, per produrre energia   elettrica o per riscaldamento, ma non per usarlo come biocarburante. E questa è un’altra sfida da   lanciare e vincere” dice convinto. Quindi, tutti gli sforzi per creare energia rinnovabile e alternativa trovano risposte nelle biomasse vegetali? Non proprio. “Possediamo un’enorme risorsa, che praticamente non utilizziamo, la FORSU, cioè la frazione organica dei rifiuti urbani. Dobbiamo quindi puntare anche sui rifiuti e sulla raccolta differenziata, che avrebbe dovuto raggiungere già nel 2012 il 65%, ma è ancora ben al di sotto di questo valore. Pensate che oggi in tutt’Italia ci sono solo circa 50 impianti che producono biogas e compost dai rifiuti, ma di questi solo 7 trasformano il biogas in biometano: se invece utilizzassimo tutta la FORSU in questo modo, senza più importare la materia prima, entro il 2030 noi potremo coprire con questo combustibile i consumi di tutti i veicoli, iniziando dal trasporto pubblico, alimentati a metano”. Eppure restano forti le resistenze   nelle popolazioni locali, che se hanno sempre urlato contro le discariche della old economy del rifiuto, hanno poi alzato i toni sulle nuove tecnologie, osservandole con una diffidenza mista a sospetto. Eppure non esistono, dati alla mano, esempi di danni arrecati alla salute delle popolazioni da impianti che trattano FORSU, ricavando compost e biometano, ma qui il dottor Pignatelli va oltre. “Quando leggo che è preferibile l’idea di una moltitudine di impianti domestici piuttosto che di un grosso impianto mi viene da sorridere. In termini di qualità del “prodotto” finale, nel caso specifico l’energia rinnovabile, ma anche di controllo e sicurezza, nonché di minore impatto ambientale, è preferibile il grande impianto centralizzato che, ad esempio, nel caso di un teleriscaldamento a legna, è in grado di sostituire completamente centinaia o migliaia di caldaie e camini. Se poi vogliamo parlare di produzione di compost, il processo condotto presso un   impianto industriale offre garanzie di qualità di gran lunga superiori a quella che si otterrebbe da tanti piccoli impianti “artigianali”.

Cercando di essere pratici e funzionali, esiste quindi l’alternativa   per risolvere il problema rifiuti ed energia? “Certo. Altrimenti, si possono sempre spedire i rifiuti   all’estero, pagando una bolletta salatissima, dove poi li trasformano in energia, che poi magari riacquistiamo. Insomma, in questo modo avremo una spesa doppia, oltre ad una nuova forma di dipendenza energetica…”. Quindi, la soluzione finale forse esiste. Aumentare i 50 impianti che oggi producono biogas da rifiuti e indirizzarli tutti verso la produzione di biometano,per arrivare a 200 o 300, a disposizione dei territori, nella massima trasparenza, pronti a restituire al territorio  fertilizzante ed energia rinnovabile. “Vuole un esempio virtuoso di cosa significhi “trasparenza” e di come si abbini a “sostenibilità”? Nel Salento, a Calimera, un impianto a biomasse raccoglie tutti gli   scarti di potatura dei coltivatori di olive e li trasforma in energia che distribuisce nella rete all’intero paese. Il perimetro dell’azienda è ad altezza uomo, è basso, è solo un confine, non c’è nulla da nascondere e nulla da temere”. Così, pare che a oggi la trasformazione dell’umido della raccolta differenziata (FORSU) in bio-metano e in fertilizzante è la migliore soluzione per l’ambiente, la salute e le future generazioni.

Il pensiero di Alessandro Corsini, presidente uscente del corso di studi di Ingegneria per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile dell’Università di Roma La Sapienza, professore di Sistemi per l’energia e l’ambiente, è altrettanto chiaro. “Risolvere oggi il problema dei rifiuti implica il coinvolgimento di diversi attori, tra cui la pubblica amministrazione, che gioca un ruolo di primo piano” dice.

Fermo restando, le autorizzazioni che seguono un percorso burocratico tra tempistiche, ritardi e rallentamenti quando un imprenditore decide di investire nel business dei rifiuti, la vera soluzione di ‘far sparire’ i rifiuti resta l’alta percentuale del raggiungimento della raccolta differenziata, che si può conseguire sì attraverso una capillare raccolta da parte degli operatori ecologici ma anche e soprattutto determinata da una forte sensibilizzazione della cittadinanza. “Se oggi siamo riusciti a riconvertire vetro, carta, plastiche, alluminio chiudendo in parte il ciclo dei rifiuti, resta la problematica sul come eliminare la frazione organica. E la frazione organica ha un destino finale differente dagli altri rifiuti, vale a dire subisce la trasformazione in biogas e poi, con l’uso di sistemi di upgrading, biometano”. Un processo inevitabile, quasi naturale che consente la valorizzazione dei rifiuti organici in energia. Se oggi poi è vero che il processo normativo tutela il cittadino da sorprese antipatiche anche la tecnologia ha compiuto passi da gigante per quanto attiene la sicurezza, ma resta da superare la cultura del sospetto del cittadino.

Alessandro Corsini, professore Ingegneria ambientale de La Sapienza

“Le svelerò una confidenza: da cittadino io vorrei che ci fosse un imprenditore che investisse su un impianto a biometano o a biomasse, perché in questo modo ci sarebbe un vantaggio per tutti. Certo, poi è chiaro anche un altro aspetto: pretenderei da questo imprenditore ogni protocollo per garantire la sicurezza e la tutela ambientale”. E questa è, infatti, un’altra spinosa questione. Se esiste il rischio d’inquinamento odorigeno e atmosferico, “questo esiste sempre, ma c’è anche oggi con le vecchie discariche. Però, vorrei sottolineare un aspetto: nella produzione di biometano da frazione organica non c’è alcun processo di combustione, e nei moderni impianti la trasformazione della sostanza organica in biogas avviene in ambiente depressurizzati dai quali i gas non possono uscire, quindi il pericolo è davvero minimo”. Non ci resta che attendere, come se avessimo l’eternità davanti, condividendo e osservando quando un imprenditore decide di investire in nome del futuro. Sperando che non riceva un rifiuto.


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