“Venne in odio agli Dei Bellerofonte: / solo e consunto da tristezza errava/ pel campo Aleio l’infelice, e l’orme / de’ viventi fuggìa.”
Nel VI canto dell’Iliade Omero ci offre una delle prime descrizioni, nonché interpretazioni, della depressione.
In Italia il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani. Facciamo fatica, nonostante le conoscenze che tutti abbiamo a disposizione, a ritenere la depressione o comunque qualsiasi disturbo dell’umore, una patologia che come tale va diagnosticata curata ed analizzata.
Il guaio della depressione è che si confonde, sovente, con vissuti universali quali il dolore, lo sconforto, la noia, che appartengono all’esperienza di tutti.
Il paziente ammalato di depressione, invece, fatica a pensare di poter arrivare fino a sera. Non ha più alcuno slancio, alcuna tensione positiva o vitale. Farsi una doccia, vestirsi, uscire di casa, avere relazioni sociali sono, per il depresso, imprese titaniche.
Non accettiamo, in un mondo sempre più finto e plastificato, che la condizione umana sia intrinsecamente legata al concetto, ontologico e filosofico, del limite. Non siamo infallibili, non potremmo esserlo in quanto esseri umani e non già divinità che tutto sanno e tutto possono.
Fatichiamo a pensare che la mente, al pari del cuore del fegato o del colon può ammalarsi, talvolta gravemente.
Nella frenesia del quotidiano ci dimentichiamo di osservare i nostri ragazzi. Un esercito di professori ,genitori, nonni, zii , amici vicini e pure così distanti, tutti vittime di una grande e tragica distrazione. E pensare che un volto, un volto soltanto potrebbe dirci assai più di qualsiasi volatile parola.
Un depresso ha bisogno, in prima istanza, di una comunità (scolastica, familiare, parrocchiale, sportiva, sociale) che sappia riconoscere il diffondersi della malattia. Poi, di un medico psichiatra. Lo psicologo, eventualmente, arriverà più tardi e sotto stretta osservazione da parte del medico specialista.
Dalla depressione, è bene saperlo, non si esce senza l’ausilio dei farmaci. I cialtroni che sostengono il contrario sono comparabili a quei criminali che negano l’effetto benefico della chemioterapia sui pazienti oncologici. I più recenti farmaci SSRI, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, di cui la sertralina può esser considerata la regina, sono uno strumento imprescindibile per guarire. La psicoterapia, altra grande alleata nella guerra contro la depressione, deve essere accompagnata alla terapia farmacologica e, possibilmente, affrontata insieme ad un medico.
E’ di queste ore la notizia della morte di Noa, la ragazza olandese che s’è lasciata morire di fame e di sete.
La diciassettenne soffriva di depressione e di anoressia a seguito di ripetute violenze sessuali subite all’età di 11 anni.
Cosa non ha funzionato nell’ingranaggio scuola famiglia sistema sanitario? Sappiamo, per quello che possiamo leggere dai giornali, che Noa è stata ricoverata in diverse strutture psichiatriche al solo scopo di impedirle il suicidio, non già per trattare clinicamente il cronicizzarsi della patologia psichiatrica della quale ella soffriva.
In una malattia giunta allo stadio terminale, in un percorso di immane sofferenza come può essere una patologia neuro-degenerativa, lo capisco che si desideri la Morte come fine ad una Vita non più dignitosa.
Una adolescente, seppur gravemente affetta da depressione, deve poter avere il diritto di guarire , di riaffiorare dagli abissi nei quali s’è lasciata cadere, riassaporando il gusto buono della Vita. A tredici anni, se depressi, si può desiderare ardentemente la morte. Epperò intorno al paziente deve stringersi non già una camicia di forza ma un abbraccio generoso di medici, educatori, genitori che sappia indicare un altro sentiero, quello della speranza.
La storia di Noa rappresenta un orrendo fallimento: della famiglia come rifugio d’amore, della medicina per non aver saputo adeguatamente diagnosticare e curare e di un consesso sociale che ha il dovere di urlare chiaro e tondo che di depressione non si può e non si deve morire. Un paziente depresso, lungi dall’avere la palla al piede, deve potersi ritenere un condannato a vivere.
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