Latina- Meno male che Silvio c’è… finché dura.

“Menomale che Silvio c’è” è stata la filastrocca ed insieme l’inno di vent’anni di potere esercitato massimamente attraverso il corpo.

“Io sono superman”, amava ripetere il Cavaliere. Quattro ore di sonno per notte, la corsa mattutina a Villa San Martino con gli amici nonché collaboratori (Galliani, Confalonieri) e, poi, certo le “cene eleganti della sera”, il fantomatico Bunga Bunga che pure si legava ad una mitizzazione di un corpo che, malgrado fosse già vecchio, doveva funzionare come quello di un ragazzino.

“Menomale che Silvio c’è” è anche l’inno di un sultanato, come Giovanni Sartori ha opportunamente definito il ventennio berlusconiano. E però quando tutto ebbe inizio, nel 1994 ( chi scrive aveva un anno di vita), davvero la gran parte d’Italia disse “menomale”. Di Pietro attraverso “Mani Pulite” fece terra bruciata dei partiti che per anni avevano governato il Paese rendendolo una delle economie più importanti al mondo, guardandosi bene dallo spiare nel buco della serratura di Botteghe Oscure, la sede dei compagni. In Italia tutti rubavano ma i comunisti no, loro erano diversi ché agitavano invece del cappio leghista la più raffinata “questione morale”. Stili diversi ma la sostanza era la stessa.

Milioni di elettori ed anche molto ceto politico, orfani delle grandi case politiche di riferimento ed indisponibili a consegnarsi come prigionieri di guerra agli amici dei sovietici votarono Berlusconi.

Con la genialità dell’imprenditore Silvio dalla sera alla mattina creò un partito, Forza Italia, che prese il posto della Dc di De Gasperi, Moro ed Andreotti e dei socialisti di Pertini, Nenni, Craxi.

Il grande merito di Silvio fu quello di semplificare il sistema politico italiano il quale era, storicamente, uno dei più confusi e rissosi di tutta Europa. Da una parte un centrodestra liberale moderato con qualche traccia di riformismo, dall’altra una sinistra apolide senza più il tetto dell’Urss e che dovette reinventarsi con l’antiberlusconismo. Al posto dei sovietici la sinistra si affidò mani e piedi alle procure italiane cercando di neutralizzare l’avversario per via giudiziaria. Strategia logorante ma alla fine vincente tanto che, a seguito di una ridicola condanna definitiva per frode fiscale, Berlusconi fu costretto a lasciare il Senato della Repubblica.

Se avessi avuto la facoltà di votare, nel 1994, avrei certamente scelto il Polo e cioè Antonio Martino, Colletti, Marcello Pera e tanti altri intellettuali liberali che s’opposero alla gioiosa macchina da guerra di Occhetto.

Subito arrivò il primo avviso di garanzia a Napoli e da lì un calvario durato vent’anni. Detto questo il Cav qualche errorino lo commise anche. Per esempio sostituire una classe dirigente dignitosa e presentabile con uno stuolo di signorine che stanno alla politica come Lino Banfi all’Unesco.

L’errore politico più grave è stato quello di non aver mai favorito una successione politica seria, anzi, sempre scansandola ché Angelino Alfano ed Antonio Tajani sono del tutto sprovvisti dei requisiti minimi per una leadership accettabile.

Una colica renale, quindi, è sufficiente a far tremare i vertici di un partito pienamente coscienti di dover morire insieme al capo.

Berlusconi è candidato in quattro sterminati collegi, alle europee. Lo ha fatto, evidentemente, per la necessità di sopravvivere: Forza Italia esiste se c’è il corpo di Berlusconi.

Quanto possa durare tutto questo è materia che sfugge ai sondaggisti e persino all’onnipresente Prof. Zangrillo, il medico personale del Cavaliere.

Finché dura, meno male che Silvio c’è.


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