Il filosofo Adriano Fabris (1958), docente di Filosofia morale presso l’Università di Pisa, sostiene che «Quando agiamo ci troviamo in una rete di ambiguità, quando compiamo davvero qualcosa le conseguenze sono impreviste. Ogni nostro agire è un interagire con una rete di altre relazioni, una rete di altre azioni. L’ambiguità è il problema della filosofia. In Platone il tentativo di disambiguare la nostra esperienza dividendo la realtà stessa a due livelli, il livello delle idee puro e un livello dell’azione concreta, genera ambiguità». Anche il linguaggio che si utilizza in una data discussione, a causa di interventi estranei o di distrazioni mentali momentanee, non sempre segue il verso giusto e quindi conduce ad un significato ben diverso da quello preventivamente stabilito. Anche in campo scientifico esaminando la teoria del caos, si scopre, in accordo con quanto sostenuto dal professore Fabris, che le nostre azioni sono soggette a casualità o imprevedibilità. Ad esempio, al gioco del flipper, i movimenti della pallina sono governati con precisione dalle leggi del rotolamento gravitazionale e degli urti elastici, ma il risultato finale è imprevedibile come lo è la sua durata. Anche quando si guida un’auto non si può prevedere che un’altra auto ci investa perché il guidatore era distratto o non aveva osservato un segnale autostradale. E così via con tanti altri esempi che si possono estrapolare dalla vita quotidiana individuale.A ciò si aggiunga la caparbietà fondata sui pregiudizi o anche la presunzione, che ci impediscono di fare bene grazie al sapere e alla competenza che si possiedono. Il filosofo inglese Francesco Bacone (1561 – 1626) nel Novum Organum (1620), infatti, sosteneva che: «L’intelletto umano, quando trova qualche nozione che lo soddisfa, o perché ritenuta vera, o perché avvincente e piacevole, conduce tutto il resto a convalidarla ed a coincidere con essa. E, anche se la forza o il numero delle istanze contrarie è maggiore, tuttavia o non ne tiene conto per disprezzo, oppure le confonde con distinzioni e le respinge, non senza grave e dannoso pregiudizio, pur di conservare indisturbata l’autorità delle sue prime affermazioni».
Pregiudizi, preconcetti, presunzione, imprevedibilità, casualità, ignoranza e quant’altro generano ambiguità, sia nel male che nel bene, che trova riscontro anche nella concezione del filosofo austriaco Karl Popper (1902 – 1994) riportata nel saggio Come io vedo la filosofia (La Cultura – XIV, 4, 1976): «I concetti o le parole sono meri strumenti per formulare proposizioni, congetture, teorie. I concetti o le parole non possono essere veri in se stessi: servono solo al linguaggio descrittivo e critico. Il nostro fine non dovrebbe essere di analizzare significati, ma di ricercare verità interessanti e importanti, cioè teorie vere». Infatti, aggiunge che «tutti noi viviamo immersi dentro a idee o a “pregiudizi” filosofici», cioè a teorie sostenute in modo non razionale, cioè senza un esame critico. Orbene, su queste problematiche si muove la critica sul fare filosofia di Adriano Fabris che, nel saggio Etica ed ambiguità. Una filosofia della coerenza (Morcelliana, 2020), sostiene che risposte a problemi aporetici possono essere cercate tramite l’etica della relazione, che porta a sottoporre a valutazione le convinzioni morali correnti nel senso di chiedersi se sono vere o sono false, fondate o infondate, ammissibili o inammissibili, legittime o illegittime, assolute o relative. Per fare ciò bisogna sforzarsi per quanto possibile di conoscere se stessi, così come dettato dal gnothi seauton iscritto all’ingresso dell’oracolo di Delfi, ma usato come “principio” morale da Socrate (470/469 – 399 a.C.) che, come sosteneva il filosofo Giovanni Reale (1931 – 2014) era un monito a riconoscere la propria limitatezza e la propria finitezza. E, come precisa Fabris, conoscere gli altri, relazionarsi con gli altri porta a conoscere “se stessi”: «Il mio pensare sarebbe alla fine inutile se non viene e non va nelle realtà nelle quali io sono con gli altri, e le realtà che sono mie immancabilmente sono in e con e alla fine anche da e per loro».
In ogni caso, il “principio” socratico si riferisce alla ricerca della natura o essenza dell’uomo, che, come ha scritto Giovanni Reale in Storia della filosofia greca e romana (Bompiani, Il pensiero occidentale, 2018) corrisponde alla «sua anima (psyché) dal momento che è l’anima che distingue l’uomo da qualsiasi altra cosa. E conoscere “se stessi” non vuol dire conoscere il proprio nome né il proprio corpo, ma esaminarsi interiormente e conoscere la propria anima, così come curare se stessi vuol dire non già curare il proprio corpo bensì la propria anima. Insegnare agli uomini a conoscere e a curare se stessi è il compito supremo. Per curare l’anima, al fine di trovare la sua vera natura, bisogna coltivare la virtù (areté) che è “scienza” (episteme) o “conoscenza” (sofia), e si deve sapere che il contrario della virtù, cioè il vizio è privazione di scienza e di conoscenza, che corrisponde all’“ignoranza” che porta a vivere come bestie». Tant’è che Dante Alighieri, in piena consapevolezza, nel canto XXVI dell’Inferno, ebbe a scrivere: Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza.
Ecco, allora, che bisogna dare respiro ampio alle discipline scientifiche (chimica, fisica, matematica, ecc.) che, secondo il matematico ungo-statunitense John von Neumann (1903 – 1957), «non tentano di spiegare, e difficilmente anche tentano di interpretare, ma si occupano principalmente di costruire modelli. Per modello si intende un costrutto matematico che, con l’aggiunta di certe interpretazioni verbali, descrive fenomeni osservati. Quel che ci si attende che funzioni è esclusivamente e precisamente la giustificazione di un tale costrutto matematico». Tuttavia, negli ultimi anni, forse è prevalsa la convinzione errata che la Scienza sia basata sulla certezza, e per questo è stata ed è criticata in malo modo da chi è estraneo ad essa e, quindi, da chi è incompetente e presuntuoso fino al punto di sostenere che uno vale uno, mettendo in discussione le leggi naturali e le scoperte che tramite la particolare e singolare metodologia scientifica gli scienziati hanno ottenuto. La spiegazione di ciò si può trovare nel pensiero del fisico tedesco Albert Einstein (1879 – 1955) che asseriva che «Le grandi menti hanno sempre incontrato una violenta contrarietà da parte delle menti mediocri. Queste ultime, infatti, non sono capaci di capire quando un uomo non si sottomette passivamente ai preconcetti ricevuti ma utilizza, invece, con serietà e fermezza il proprio ingegno». Un convincimento avvalorato dai fatti che si potrebbe considerare un postulato comportamentale. D’altra parte, anche nell’ambito scientifico avviene lo stesso anche se per motivazioni diverse. Infatti, il giornalista scientifico James Gleick (1954) nel suo saggio Caos – La nascita di una nuova scienza (BUR Scienza, 2014) scrive: «Incomprensione; resistenze; esasperazione; accettazione. Coloro che studiavano il caos da più lungo tempo assistettero a tutte queste reazioni».
Coloro che insultano e mettono in discussione l’operato e le scoperte degli scienziati, e quindi della Scienza (che ha in sé secoli di storia fruttuosa), agiscono per ignoranza o perche confondono la metafisica con la fisica o anche per mala fede, o perché non sanno che lo scienziato è un uomo libero, un rivoluzionario che non si ferma su quelle che sono le convinzioni comuni, ma va oltre razionalmente e consapevolmente. Basterebbe leggere il saggio di Popper Poscritto alla logica della scoperta scientifica, in cui viene sottolineata la differenza tra teoria metafisica e teoria scientifica: la prima è basata su “pregiudizi filosofici” non sempre razionali (esistenza o non esistenza di Dio, sul tipo di Stato, sul senso della Storia, sul destino dell’uomo, ecc.) e in quanto tale non è confutabile (de principiis non disputandum est), mentre quella scientifica è falsificabile o confutabile in quanto sempre razionale. Per lo scienziato la libertà ha il significato morale di dominio della razionalità sull’animalità. Lo scienziato, in definitiva, basa il suo agire sul razionalismo vero che è appunto quello di Socrate che, secondo Popper in La società aperta e i suoi nemici: … è la consapevolezza dei propri limiti, la modestia intellettuale di coloro che sanno quanto spesso si sbaglia e quindi si dipende dagli altri anche per sapere questo soltanto. Esso è la consapevolezza che non dobbiamo aspettarci troppo dalla ragione, che il dibattito raramente risolve un problema, benché sia il solo mezzo per imparare non a vedere chiaramente, ma a vedere più chiaramente di prima. … Il razionalismo vero è consapevole della scelta irrazionale della ragione». Socrate, un uomo giusto che non faceva male a nessuno, venne condannato a morte ingiustamente perché considerato un guastatore, un rivoluzionario, un uomo che non accettava il pensiero unico, un bastian contrario oggi si direbbe, considerato un pericoloso nemico dello Stato perché considerava le leggi non sempre ritenute giuste. Uno Stato di tale tipo è uno Stato etico perché si mostra come giudice assoluto del bene e del male, come educatore morale per ogni individuo e per la società, non consentendo al singolo di agire liberamente. Il filosofo britannico Thomas Hobbes (1588 – 1679) nel De cive a riguardo scriveva che la legge è il comando di ogni individuo, il cui precetto contiene la ragione dell’obbedienza. Socrate era un rivoluzionario che usava, come ha riportato nel citato saggio il filosofo Giovanni Reale, l’«ironia complessa» – una sua creazione –, nella quale «ciò che vien detto a un tempo è e non è ciò che si intende; il suo contenuto superficiale è inteso come vero in un senso, falso in un altro». Socrate fu, come dopo di lui anche Gesù Cristo, un rivoluzionario non violento.
Nei confronti di tutti quelli che mettono in dubbio i risultati della Scienza o che sostengono che la Scienza non esiste, qualcuno ritiene che bisognerebbe mostrarsi con sprezzatura, cioè con un «atteggiamento ostentatamente disinvolto, di studiata noncuranza da parte di chi si sente molto sicuro di sé e dei proprî mezzi». La mia posizione, invece, sta da un’altra parte, cioè dalla parte di coloro che insistono tenacemente nel curare l’ignoranza.
Francesco Giuliano
(Il dipinto rappresenta “La morte di Socrate” di Jacques-Philip-Joseph de Saint-Quentin
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