Attualmente, a causa della pandemia da Covid-19, oltre al contagio della malattia che ha già fatto migliaia di morti e ne farà ancora, c’è anche il contagio delle emozioni individuali legate alla paura e alla rabbia che, a loro volta, derivano da uno spesso substrato molto profondo d’ignoranza, avulso da semplice razionalità. In un paese maturo, costituito cioè da cittadini di un certo livello culturale, non si dovrebbe dare adito a quei movimenti reazionari che addossano la colpa dell’avvento del coronavirus SARS-CoV2 all’attuale papa Francesco. Bergoglio, infatti, è accusato di ciò a causa delle sue posizioni rivoluzionarie, ritenute eretiche, come risulta dalla puntata di Report trasmessa su RAI3 alle 21.20 del 20 aprile 2020, non solo in ambito nazionale ma soprattutto in quello internazionale. Al fine di far prendere coscienza, ai credenti e non, che questa accusa è una montatura per attaccare il papa, basta fare un excursus storico delle pandemie verificatesi nella storia dell’uomo sia prima che dopo l’avvento del cristianesimo. E che le pandemie o le epidemie ci sono sempre state perché sono eventi naturali, come le inondazioni, i terremoti, i maremoti, le eruzioni vulcaniche, ecc. e, per questo, non sono castighi divini.
La peste – feral morbo, e la gente peria – attribuita ad una punizione divina, che Omero (IX – VIII sec. a.C.) cita nei primi versi del canto I dell’Iliade, poema epico scritto intorno al 750 a.C. sulla guerra di Troia avvenuta circa quattro secoli e mezzo prima (1194 – 1184 a.C.), si evince sin dai primi versi della traduzione (1825) di Vincenzo Monti: Cantami, o Diva, del Pelíde Achille/ l’ira funesta che infiniti addusse/ lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco/ generose travolse alme d’eroi,/ e di cani e d’augelli orrido pasto/ lor salme abbandonò (così di Giove/ l’alto consiglio s’adempía), da quando/ primamente disgiunse aspra contesa/ il re de’ prodi Atride e il divo Achille./ E qual de’ numi inimicolli? Il figlio/ di Latona e di Giove irato al Sire/ destò quel Dio nel campo un feral morbo,/ e la gente pería: colpa d’Atride/ che fece a Crise sacerdote oltraggio./ […]
Dalla peste di Atene invece sono passati esattamente quasi venticinque secoli. Era il 430 a.C. quando Atene, nel secondo anno della Guerra del Peloponneso contro Sparta (431 – 404 a.C), venne colta da questa malattia che divenne epidemica e che ebbe delle ricadute nel 429 a.C. e nel 427-426 a.C. Lo racconta lo storico ateniese Tucidide (460 – 399 a.C.) nel libro II di La guerra del Peloponneso (47 -53) quando ancora governava Pericle. Tucidide racconta per esperienza personale, essendo stato anche lui contagiato, che la peste ebbe inizio in Etiopia e poi, attraversando Egitto e Libia, arrivò improvvisamente ad Atene contagiando innanzitutto gli abitanti del Piero. La progressione del numero dei decessi si ampliò in modo esponenziale e rapidamente. E non si riuscì a trovare un farmaco adeguato alla cura. Per fortuna di quei pochi che si salvavano il male non aggrediva mai due volte e se ci fosse stata una ricaduta questa non sarebbe stata letale.
Come punizione, il dio Apollo castigò contemporaneamente con la peste anche la città di Tebe che viene descritta dal tragediografo Sofocle (496- 406 a.C.), nel prologo di Edipo re (430-420 a.C.), «distrutti i bovi delle mandrie, e i parti / delle donne, che a luce più non giungono: / e il dio che fuoco vibra, l’infestissima / peste, su Tebe incombe, e la tormenta,/ e dei Cadmèi vuote le case rende: / sí ch’Ade negro, d’ululi e di pianti / opulento diviene». (trad. E. Romagnoli).
La peste di Atene è stata così famosa che è stata descritta anche da Lucrezio Caro (94 – 50 a.C.) nel libro VI (1145-1196) del De rerum Natura dove la malattia è interpretata come prodotto della perturbazione degli equilibri naturali. Ecco alcuni versi da cui si evince una descrizione che è prossima a quella di Tucidide: Dapprima avevano il capo infiammato per il calore/ e pervasi di un fulgore diffuso tutti e due gli occhi./ La gola, poi, nell’interno nera, traspirava sangue/ e cosparsa di ulcere la via della voce si serrava,/ mentre l’interprete dell’animo, la lingua, gocce di sangue emetteva,/ infiacchita dal male, greve nel muoversi, ruvida al tatto./ Poi, quando dalla gola la malattia/ era passata nel petto e fin dentro il cuore afflitto/ dei malati, allora veramente si indebolivano tutte le barriere della vita./ Il respiro spargeva un fetore ributtante,/ simile a quello che emanano i putridi cadaveri insepolti./ Le forze dell’animo intero e tutta la fibra/ del corpo languivano sulle soglie stesse della morte./ […]
In Ab urbe condita, libro VII, lo storico romano Tito Livio ( 59 a.C. – 17 d.C.) scrive che nel 365 a.C., quando divennero consoli Lucio Genucio e Quinto Servilio, scoppiò una terribile pestilenza a Roma. Il numero delle vittime fu molto elevato. Ciò che rese degna di menzione quella pestilenza fu la morte di Marco Furio Camillo, dichiarato secondo fondatore di Roma dopo Romolo. La pestilenza infuriò sia in questo che nel seguente anno, sotto il consolato di Gaio Sulpicio Petico e Gaio Licinio Stolone. Niente fu fatto degno di essere ricordato, se non che, per implorare il favore degli dei, si celebrò per la terza volta dalla fondazione dell’Urbe una cerimonia religiosa; e poiché la violenza della malattia non diminuiva né per provvedimenti umani né per aiuto divino, vinti gli animi dalla superstizione, si dice che fra gli altri mezzi escogitati per placare l’ira celeste si istituirono anche ludi scenici, una novità per quel popolo bellicoso perché fino ad allora c’era stato solo lo spettacolo del circo.[…]
Nel libro XVI degli Annales un altro storico romano, Tacito (56 – 117 d.C.), descrive la peste di Roma avvenuta nel 65 d.C. mentre imperava Nerone: Gli dèi vollero che quell’anno, segnato da tanti delitti, fosse caratterizzato da violente tempeste e pestilenze. […] nella città di Roma la furia di un’epidemia seminava morte tra persone di ogni ceto sociale […] le case si riempivano di morti, le strade di funerali, il contagio non risparmiava né per sesso, né per età, perivano di morte improvvisa sia schiavi che popolani liberi, […].
Lo storico romano Paolo Orosio (375- 420 d.C) descrive la peste libica avvenuta nel 126-125 a.C. di cui venne a conoscenza dopo essersi recato nel 413 in Africa.
Il famoso medico Galeno di Pergamo (129 -216 d.C.) riferisce della peste antonina durata quindici anni (165 – 180 d.C.) che, oltre a milioni di vittime, causò la morte, nel 169 , dell’imperatore Lucio Vero e anche del correggente Marco Aurelio Antonino. Nel libro Methodus Medendi Galeno descrive i sintomi della malattia: eruzioni cutanee pustolose, febbre, faringite, diarrea.
Nove anni dopo si manifestò un nuovo focolaio che, secondo lo storico romano Cassio Dione (155 – 235 d.C.) in La storia romana, causò ogni giorno a Roma circa 2.000 morti. La peste si dìiffuse e proseguì in tutto l’impero per circa 30 anni, generando molti milioni di morti, e decimò anche l’esercito romano.
Nel VI secolo dopo Cristo, mentre era imperatore Giustiniano (527 -565), si verificò la peste di Giustiniano, sviluppatasi in Etiopia, che devastò tutti i paesi del Mediterraneo. Lo storico Evagrio di Cesarea (536 -590) scrisse che a Costantinopoli morivano 10 mila persone al giorno e che si verificò la scomparsa di un terzo della popolazione che sconvolse l’assetto socio-economico di quel periodo. Questa peste venne considerata un castigo divino a causa dei crimini effettuati dall’imperatore.
Andando avanti nella storia, la peste si ripresenta nel 1348 a Firenze. Essa viene descritta da Giovanni Boccaccio (1313 – 1375) nell’introduzione del Decamerone (1349 o 1351 o 1353): Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza […]Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse.[…] Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li lor passati!
Circa tre secoli dopo divampa anche la peste di Milano (1629 – 1633) descritta da Alessandro Manzoni (1785 – 1873) nel romanzo I promessi sposi (1827) ai capitoli: XXXI e XXXII: La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia. […].
Infine, è utile citare anche il libro La peste (1947) di Albert Camus (1913- 1960) che, attraverso una riflessione filosofica, chiama la peste il male oscuro che ritorna periodicamente nella storia umana esigendo ogni volta un alto tributo di vite. Lo scrittore, tuttavia, piuttosto che accettare supinamente lo stato delle cose prende posizione, rimanendo coerente con i propri ideali e agendo dentro un umanesimo concreto. E racconta l’uomo attraverso le sue azioni scomposte e contraddittorie tra spinta emotiva e razionalità. Come si evince da alcune frasi del libro: Vedilo, questo angelo della peste, bello come Lucifero e brillante come il male stesso, sollevato sopra i tuoi tetti, la mano destra porta la lancia rossa a livello della sua testa, la mano sinistra indica una delle tue case. […] Ora […] la peste entra nella tua casa, si siede nella tua stanza e aspetta il tuo ritorno. È lì, paziente e attenta, assicurata come l’ordine stesso del mondo. Questa mano che ti porgerà, nessun potere terreno e nemmeno, conoscerlo bene, vana scienza umana, può solo farti evitare. […] Questo è disgustoso perché supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare ciò che non possiamo capire […] il dolore inflitto a questi innocenti non aveva mai smesso di mostrargli quello che era veramente, vale a dire uno scandalo; […] Ho un’altra idea di amore. E rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione in cui i bambini vengono torturati. […] Come se la sua fragile carcassa si piegasse nel vento furioso della peste e si spezzasse sotto i ripetuti respiri di febbre. Il passato impetuoso, […] la febbre sembrava ritirarsi e abbandonarlo, ansimando, in un colpo bagnato […]. Quando il flusso caldo ha raggiunto […], il bambino […] si è raggomitolato, indietreggiando sul fondo del letto nel terrore della fiamma che lo stava bruciando.
Francesco Giuliano
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