Alcuni giorni or sono, il CDA della Rai ha provveduto a nominare il  nuovo direttore del TG3 ed il nuovo direttore di Rai 3 con tre voti a favore e tre astenuti. Non ha votato, abbandonando la seduta per protesta,  il consigliere Riccardo Lacanà che così ha commentato: ” Oggi in CDA è stata scritta una brutta pagina della storia del servizio pubblico…” L’ad ci ha chiesto in pratica di ratificare incarichi per la maggior parte decisi fuori della Rai, frutto dei soliti accordi politici tra partiti ampiamente raccontati dalla stampa.”(Rep.16 maggio pag. 17 )

Quello del rappresentante dei dipendenti della Rai all’interno del consiglio di amministrazione è stato un atto dignitoso che denuncia, ancora una volta, quel  pessimo sistema di sottogoverno, praticato in occasione delle nomine  all’interno degli Enti Pubblici e delle strutture di derivazione pubblica, al fine di spartirsi il potere piuttosto che garantire le migliori soluzioni di gestione.

Si tratta di una vecchia, pessima e costante abitudine, iniziata nel 1967 con Massimiliano Cencelli ( dirigente politico democristiano ) che aveva definito, in un documento, le  linee guida per la spartizione del potere tra le correnti democristiane; documento – successivamente denominato ” Manuale Cencelli ” – che è stato utilizzato,   per gli stessi fini,  nei rapporti tra le forze politiche.

Ha fatto bene Lacanà ma la sua denuncia servirà a qualcosa?

Ricordando l’esperienza  pluridecennale che ha caratterizzato il rapporto tra il servizio pubblico della informazione e la politica, in modo particolare in Italia, non servirà a nulla, lo stesso consigliere lo sa.

Eppure è generale la convinzione che le mani dei partiti, delle lobby e del potere più in generale sulla informazione ne attenuano fortemente l’indipendenza. Il sistema informativo  che non garantisce  la libertà di critica, ma coltiva la rassegnazione o il fervido entusiasmo nei confronti del potere, ha poco a che fare con la democrazia: la qualità della informazione, infatti, è la misura dello spessore della vita democratica di un Paese.

Occorre una profonda e generale riforma del sistema ma, purtroppo, ancora non se ne vede traccia. La stessa Corte Costituzionale con le sue sentenze, in materia, ne ha evidenziato esigenza e  direzione.

La convenzione con la Rai, che regola il sistema pubblico dell’informazione scade nel 2022; abbiamo due anni per riflettere sul suo possibile rinnovo e sui suoi contenuti. Una serie di domande preliminari si impongono.

In una fase storica contrassegnata da crisi finanziaria, trasformazioni strutturali, sovrapposizione di linguaggi, tecnologia e modalità espressive serve ancora un servizio pubblico?

Quale carattere distintivo dovrebbe avere?

La RAI o chi per lei è in grado di svolgere un servizio pubblico nell’epoca della cross medialità ?

Esiste ,oggi, di fronte all’enorme messe di informazione, per quanto caotica, improvvisata e talora di bassa qualità, un problema di democrazia nel sistema dei media, nel senso di garantire un’informazione democratica e pluralista?

E’ opinione largamente diffusa che oggi più che mai occorra un moderno ed efficiente servizio pubblico. In tutta l’Europa è in corso un ripensamento dei modelli per rilanciarne ruolo e funzione.

Non è la mole di informazioni né la ridondanza dei soggetti, infatti, che garantiscono il pluralismo ma la tutela della libertà di espressione, la difesa attiva del pluralismo delle fonti e dell’accesso, lo sviluppo sociale e culturale

Non basta allora partire dagli effetti e dalle potenzialità delle nuove tecnologie che pure stanno cambiando gli scenari. Occorre ripartire da una riflessione su come la composizione ed i caratteri  della società italiana siano cambiati rispetto a  quelli dell’epoca nella quale furono istruiti i principi del servizio pubblico.

Un rilancio del servizio pubblico, perciò, non può avvenire che sulla base dell’acquisizione di tali mutamenti. Occorre, pertanto, una riscoperta del valore culturale della comunicazione ed un rifiuto deciso della informazione come spettacolo, della sua trasformazione in evento o – addirittura – come strumento partigiano di propaganda politica.

E’ necessario, inoltre, ridefinire i confini delle attività del servizio pubblico. Le difficoltà finanziarie e l’evoluzione tecnologica hanno ormai evidenziato che esso non può essere  presente sempre e dovunque a fronte della crescita esponenziale delle offerte televisive.

Nel  mondo globalizzato il servizio pubblico, nel quadro di un processo di riterritorializzazione, dovrebbe soprattutto raccontare le radici, le identità culturali, artistiche, industriali, i siti valoriali nazionali e locali. Il servizio pubblico non deve essere caratterizzato esclusivamente in termini di qualità e varietà dei contenuti ma deve avere anche un ruolo importante nell’innovazione tecnologica e coltivare la capacità di raggiungere i suoi utenti su tutte le sue utenze. Dovrà assumere sempre più il significato di servizio universale.

Nelle more della ridefinizione del sistema pubblico dell’informazione, della risoluzione dei conflitti di interesse, della riforma della editoria e del sistema dell’emittenza ( ricordando che il mercato italiano non può sostenere l’attività  di tutti gli operatori di rete, nazionali e locali ) sarebbe auspicabile porre mano alla riforma della RAI.

I modelli operativi  tradizionali, infatti,  stanno attraversando una crisi pesante,  determinata da fattori congiunturali e fattori strutturali. Ed è opportuno ricordare che  non può essere stata soltanto la nascita dei nuovi media ad avere spiazzato il quadro preesistente.

In verità lo spessore della crisi economica, la sua lunga durata e la sfasatura del sistema produttivo rispetto alla nuova divisione internazionale del lavoro – che hanno determinato la caduta del reddito e del potere di acquisto delle famiglie – ne fanno uno dei fattori essenziali.  Non dimentichiamo, inoltre, che la crescita del sistema della pay tv ha modificato gli equilibri finanziari del sistema ed introdotto una divisione sociale tra chi può accedere e chi no. E tuttavia  ancor più incidente  è stato l’altro fattore rappresentato dall’analfabetismo di ritorno così diffuso nel Paese.

Risolvere i due problemi è urgente, non solo ai fini più generali del Paese, ma anche per garantire pluralità, completezza e correttezza dell’informazione pubblica. C’è da augurarsi che i nostri gruppi dirigenti ne prendano atto e si muovano in fretta ed all’altezza della situazione.

Lelio Grassucci  (già parlamentare)


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