La malattia Covid-19, che sta, da più di un anno, imperversando su l’umanità intera senza rispettare né i confini geografici dei paesi, né ovviamente le differenze dei ceti, oltre ai problemi di salute fisica sta generando anche problemi di natura psichica, dovuti all’emarginazione obbligata, alla perdita di libertà, all’isolamento, al cambiamento forzato di abitudini, quali la depressione, la confusione, la paura, l’insicurezza, l’incertezza, la perdita di fiducia e di valori, ecc. . E allora l’uomo costretto alla solitudine, vincolato ai problemi collegati alla malattia, cerca di ritornare, trasportato da influsso nostalgico, in statu quo ante, nella stato sociale e individuale in cui si trovava prima.
Situazioni di tal natura si sono verificate nel corso della storia umana e l’uomo ha sempre cercato di superare gli ostacoli che, grazie al suo naturale spirito di sopravvivenza, come l’attuale violenta ondata pandemica, lo hanno investito. Come la stessa ondata che «trasportando Robinson Crusoé, lo porta o, a dir meglio, lo fa sbattere contro la punta di uno scoglio …». È lo scrittore Daniel Defoe (1660 – 1731) che, nel romanzo Robinson Crusoé (1719), affronta il problema dell’uomo solo che, colto da eventi rovinosi della natura, che per questo non sempre si mostra benevola, utilizza il raziocinio con cui li può affrontare, dominare e superare. Si pone, infatti, Robinson nella sua solitudine domande sull’essere e sul non-essere, sull’arroganza umana e, quindi, sul significato della riflessione e della salvezza. Affronta Defoe due percorsi paralleli, quello del salvataggio dell’anima e quello della sopravvivenza fisica che porta Robinson alla ricerca di un luogo che gli possa consentire di realizzare ciò. Tant’è che, alla fine del romanzo, Robinson dice «… a Londra. Qui ho risoluto di rimanere, per prepararmi ad un viaggio più lungo di tutti quelli che ho narrati, dopo aver condotto un’esistenza piena d’infinite vicissitudini e dopo aver imparato sufficientemente a valutare i benefizi di una vita modesta e ritirata, e la beatitudine di terminare in pace i propri giorni …» (Tipografia Editoriale Lucchi , Milano,1955).
Un uomo, anche lui rimasto solo, che va alla ricerca della sua isola Itaca, è Odisseo, cioè Ulisse, le cui vicissitudini vengono descritte sapientemente nel poema Odissea (IX – VIII sec. a.C.) dal poeta greco Omero che nel Proemio recita «Musa, quell’uom di multiforme ingegno/ dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra/ gittate d’Ilion le sacre torri;/ che città vide molte, e delle genti/ l’indole conobbe; che sovr’esso il mare/ molti dentro del cor sofferse affanni,/ mentre a guardar la cara vita intende,/ e i suoi compagni a ricondur; ma indarno ricondur desiava i suoi compagni, ché delle colpe lor tutti periro./ Stolti! Che osaro violare i sacri/ al Sole Imperion candidi buoi/ con empio dente, ed irritaro il Nume,/ che del ritorno il dì lor non addusse. …». [dalla traduzione di Ippolito Pindemonte (1753 – 1828)]. Sostiene il latinista catanese Concetto Marchesi (1878 – 1957) in Voci d’antichi che «l’Odissea è il poema di Ulisse, dell’uomo che “di tanti uomini vide le terre e conobbe il costume/ e tanti pel mare sofferse travagli nell’animo suo”. Eccolo dunque subito l’eroe della conoscenza e della sofferenza, l’eroe navigatore che a tanti lidi approdò di diversissime genti, perché la sua strada, la strada dei suoi travagli, era il mare immenso che porta a tutte le terre».
E anche lo scrittore Eugenio Treves (1888 – 1970) scrive dell’Odissea che è «Una fiaba eterna. La guerra, il bottino, la gloria, il mare, le bonacce e le tempeste, le terre ignote e profumate, le regge di sogno, i mostri che divorano, i filtri che smagano, le fievoli ombre dei morti, le dee che sorridono, le sirene che cantano: tutto fluttua nell’incerto, tutto alletta e tradisce; il mistero avvolge; l’infinito spaura. Andare? Acquistare conoscenza? Sapere? Sì, certo. Ma poi soltanto un lembo di terra – non importa se ispida e scabra – soltanto un lembo di terra vi è, fermo, e determinato, e sicuro. Ivi sorge una casa e nella casa arde un focolare; ivi sono limpidi volti e cuori fedeli; ivi la stanchezza si allenta, il gelo si scioglie, il dolore si placa. Quello è l’approdo». (La Nuova Italia Editrice, 1956).
E come Odisseo è anche il protagonista dell’Ulisse (1922) di James Joyce (1882 -1941), Mr. Leopold Bloom che, come ogni individuo che rientra a casa dopo un’odissea durata un giorno intero, a differenza dell’eroe greco che per raggiungere la sua isola impiegò venti anni, costruisce la sua personalità pari ad un’isola sconosciuta di cui si impossesserà all’inizio della sera.
Francesco Giuliano
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