Il nuovo radicalismo di destra. Nel 1967, Theodor Adorno tenne una conferenza all’Università di Vienna sull’ascesa dell’NPD tedesco, un partito che occhieggiava al nazionalsocialismo.
Nonostante siano passati decenni e, nel frattempo la Storia abbia conosciuto momenti epocali come la caduta del Muro di Berlino, questo piccolo saggio edito da Marsilio ci è utile per affrontare la nostra contemporaneità.
L’Europa ed il mondo sono attraversati da movimenti populisti di destra, più o meno radicali ed ognuno con le proprie specificità. Madame Le Pen non è esattamente Salvini , il quale non è affatto simile a Donald Trump. Per non parlare dello Zar di tutte le Russie, Vladimiro Putin o il satrapo ungherese Orbàn.
Qualcosa in comune questi signori però ce l’hanno. Sono pienamente dentro il “gioco” democratico, almeno dal punto di vista formale. Pazienza se, praticamente, chiedono ed ottengono pieni poteri da un parlamento del tutto afono (vedi la situazione ungherese). Sono democratici a parole, illiberali nella prassi che poi in politica conta assai.
Possono farlo perchè vi sono tutte le premesse sociali per l’affermarsi di questi nuovi radicalismi di destra. Stesse condizioni che rilevava Adorno per la Germania dei suoi tempi: una classe borghese o piccolo borghese sempre più declassata ed intimorita, quindi naturalmente avversa a movimenti “socialisti” o sedicenti tali. I quali, allora come ora, hanno tutti abbracciato un espansionismo keynesiano che ha prodotto, suggerisce Adorno, disoccupazione e malessere sociale.
In questa latitanza ideale e sociale della sinistra, la quale ha smarrito se stessa ed il suo tradizionale “blocco sociale”, non dobbiamo meravigliarci se gli operai di tutta Italia – e d’Europa- con la tessera firmata da Landini in tasca, poi votino per Matteo Salvini. La sinistra , nel frattempo, è indaffarata a produrre vino ed olio nelle tenute umbre dei suoi dirigenti, a veleggiare per mare e a farsi fare scarpe su misura le quali costano come tre stipendi di un metalmeccanico.
Poi, certo, l’Europa. Il nuovo radicalismo di destra, notava Adorno, è certamente all’opposizione di questa unione à al carte e preferisce certamente un esasperato quanto sciocco nazionalismo, l’equivalente di quel che noi oggi chiamiamo “sovranismo”.
Questi movimenti tifano per la catastrofe sociale, la invocano anzi. Nella confusione essi proliferano e traggono vigore dall’altrui disperazione. Perseguono, con mezzi razionali, scopi irrazionali. Sono specialisti della propaganda, la quale è l’essenza della loro politica. Una politica che odia gli intellettuali, la complessità del pensiero e all’ombrello della Nato preferisce l’ex kgb Putin o il sincero democratico Orbàn.
Come se ne esce? Secondo Adorno non bisogna farne una questione morale, come sempre desidera certa sinistra ipocrita, ma una questione di interessi veri e reali. Dargli rappresentanza e cittadinanza che altrimenti troverebbe soltanto nei movimenti di destra radicale.
Non agitare la questione morale significa anche fare una pernacchia a quegli pseudo intellettuali con l’ossessione permanente del fascismo. Il pericolo non è il ritorno di un fascismo morto nelle menti e nei cuori degli italiani, campioni mondiali nell’applaudire in tempo di pace e a scappare al primo insuccesso, quanto nell’affermarsi di un clima illiberale e reazionario. Come abbiamo cercato di argomentare, e come avvertiva Adorno già a metà degli anni ’60, ce ne sarebbero tutte le premesse sociali. Oggi più che mai, al termine di un virus che oltre le vite rischia di mettere fine alla nostra economia.
Merita di essere citato integralmente un passaggio della conferenza di Adorno :”è certo che nel mondo, in ciascuna delle cosiddette democrazie, è possibile osservare con intensità variabili qualcosa di simile, ma solo in quanto espressione del fatto che, fino a oggi, da nessuna parte la democrazia si è concretizzata in modo effettivo e completo dal punto di vista del contenuto economico-sociale, ma è rimasta sul piano formale. E, in questo senso, i movimenti fascisti potrebbero essere indicati come le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio concetto”.
Parole pronunciate e poi trascritte a metà degli anni ’60, ma che costituiscono uno spunto valido per la nostra attualità.
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