Emanuele Severino Il mio ricordo degli eterni Autobiografia
L’autobiografia è il racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità. (Philippe Lejeune)
Il filosofo Emanuele Severino, autore di molte opere fondamentali, tradotte in varie lingue, ha scritto in nove capitoli, con un linguaggio piano e accessibile, un’interessante autobiografia Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia (Rizzoli editore), in cui, errando tra gli innumerevoli ricordi, riavvolge i fili della sua esistenza. Un libro ricco di memorie che riaffiorano fin dall’infanzia trascorsa nella città natale di Brescia, dove vive insieme ai genitori, al fratello, scomparso in guerra, e alla giovane sedicenne Esterina, «la ragazza più bella di Brescia», che diventerà per lunghi anni la sua compagna di vita.
Per l’autore ricordare importanti eventi, suggestioni, emozioni della vita significa errare, sognare e credere che ciò che egli racconta sia stato sperimentato e vissuto solo da lui o da poche altre persone. Per Severino ogni essere «uomo» è un ricordare che fa parte del suo errare, riferendosi a Proust e all’idea che coloro che non sono più, li rende “perpetui”, e afferma che «i nostri morti ci attendono, come le stelle del cielo attendono che passino la notte e la nostra incapacità di vederle se non al buio».
Fra gli intensi ricordi, che appartengono alla sua vita, affiorano i bombardamenti, il ritorno in città dopo la fine della guerra, il primo adolescenziale incontro con Esterina, gli studi liceali e l’approccio alla filosofia con monsignor Angelo Zani, tomista intelligente, aperto e preparato, i primi saggi giovanili, gli studi musicali di pianoforte, la casa in montagna della nonna con il prato verde e le piante di ciliegio.
Con passione e senso di viva e gioiosa nostalgia l’autore racconta gli anni durante i quali trascorre il periodo dell’università presso il collegio cattolico, “Borromeo”, dove frequenta le interessanti lezioni dei professori Gustavo Bontadini (suo maestro) ed Enzo Paci, personalità rilevanti della filosofia del tempo; vive la tragica fine di un caro amico e partecipa al funerale della sorella del rettore, esperienza vissuta come giornata di vacanza.
Ricorda l’anno della laurea (1950), gli studi universitari su Heidegger e la metafisica, intesa come una forma ancora acerba di nichilismo, le nozze con Esterina, gli incontri e le discussioni con illustri intellettuali come il grande filologo Giorgio Pasquali (morto tragicamente perché investito per strada a Belluno) e il giurista Arturo Carlo Jemolo; inoltre rievoca l’inizio degli studi universitari, incentrati sulla riflessione del tema dell’incontrovertibilità, le prime difficoltà all’Università cattolica per le tesi centrali sostenute nel saggio Studi di filosofia della prassi.
Il professore Severino ribadisce che ricordare è sognare, è una parte del grande sogno del mondo e scrivere i propri ricordi è sfigurare la relativa purezza del sogno che è la manifestazione del mondo, e l’autobiografia, come narrazione delle vicende della vita, appartiene al grande sogno ed è un modo di sentirsi al sicuro, di mettersi al Riparo. Scrivere i propri ricordi significa, infatti, porsi al riparo e dare confidenza al prossimo.
Nel proseguire il racconto autobiografico l’autore ricorda le vicende della sua famiglia dal lato paterno, con il nonno e il padre siciliano, gli zii e le zie diventati rispettivamente gesuiti e suore, e dal lato materno. Si sofferma soprattutto sugli anni Quaranta, sulle vicende legate al fascismo, alla guerra ai bombardamenti, in particolare a quello devastante del 2 marzo del 1945., dove il padre rimase illeso.
Nel ricostruire la sua vita Severino, inevitabilmente con ragionamenti di natura filosofica e in riferimento ai suoi scritti (Ritornare a Parmenide, La struttura originaria, Studi di filosofia della prassi, Destino della necessità, Oltre il linguaggio, Oltrepassare, La morte e la terra, La Gloria) e alle personalità filosofiche incontrate, si attarda a riflettere sul significato del credere, dell’essere credente, sul rapporto tra la sua religiosità “naturale” e la filosofia, sul suo «stare tra filosofia e fede», sulle contraddizioni della fede e dello scontro con la Chiesa e il suo congedo dal cristianesimo, come svolta tra il suo linguaggio filosofico (che è parte del suo essere “uomo” che testimonia il destino) e il linguaggio del mondo cattolico.
La controversia con la Chiesa e l’Università cattolica degli anni ‘70, vissuta come esperienza culturale di grande interesse, viene ricordata dall’autore con la discussione del rapporto tra il destino della verità e la fede cristiana con l’illustre storico delle religioni Károly Kerényi e con l’incontro a Roma presso il palazzo del Sant’Uffizio, dove la Chiesa dichiarò ufficialmente la radicale incompatibilità tra il suo discorso filosofico, basato sulla critica radicale della trascendenza di Dio, e il cristianesimo. Il distacco dal suo essere “uomo” dal cristianesimo, come forma eminente della civiltà orientale, avvenne «in buona fede» e questo periodo fu tra i più belli della sua vita.
Come professore ordinario di filosofia teoretica, che riteneva l’attività di docente importante, Emanuele Severino ricorda sia il gruppo di giovani studiosi di talento dell’Università Cattolica di Milano come Umberto Galimberti, Salvatori Natoli ed altri, sia quelli dell’Università di Venezia, come Massimo Donà e Massimo Cacciari.
Durante questo periodo il filosofo ebbe modo di incontrare prima Lucio Colletti, Noberto Bobbio, Ludovico Geymonat, e in seguito Hans Georg Gadamer, Emmanuel Lévinas, Roberto Calasso, scrittore e contemporaneamente editore, di altissimo livello con il quale pubblicò gran parte della sua produzione saggistica. Particolare ricordo è dedicato all’amico, Bruno Boni, sindaco di Brescia, che dispose di mettere nella sua bara la raccolta di scritti Essenza del nichilismo, inteso come alienazione essenziale, abissalmente più profonda dell’alienazione capitalistica.
Il professor Severino mostra anche interesse per Eschilo e Leopardi considerati, oltre che poeti, anche filosofi di grande rilievo, ed afferma che ha dialogato e discusso più con scrittori, poeti, musicisti, giuristi che con filosofi.
Nell’autobiografia Severino riflette sul suo carattere, sul suo essere “uomo”, (che è errare, che distingue di essere «necessariamente in una fede e di aver fede), sul suo essere orgoglioso, antipatico a sé stesso, sull’essere buono e sincero, sul suo darsi da fare nella vita come intellettuale, pensando e scrivendo senza mai desiderare impegni e incarichi diversi dall’insegnamento universitario.
Ricorda inoltre i viaggi con sua moglie accompagnatrice in Germania, a Teheran, a Budapest, a Mosca, a L’Avana. Commovente è il racconto dell’ultimo viaggio a Cuba con Esterina che muore subito dopo il rientro in Italia, senza soffrire e forse senza sapere che stava morendo.
Questo libro, Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, commovente e ben scritto in maniera poetica, termina con due meravigliose frasi, che mi hanno particolarmente colpito: «Ciò che se ne va scompare per un poco. I morti che se ne vanno scompaiono per un tempo maggiore. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare» e «La fede è inseparabile dal dubbio e che quindi “l’uomo” proprio perché lo crede, dubita insieme di essere disperato e dunque in verità non lo è».
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