Il grido di Giobbe di Massimo Recalcati
Il male ha due aspetti che, per quanto spesso e non sempre a ragione collegati, debbono essere tenuti ben distinti. Questi sono: il Male attivo e il Male passivo. Il primo è quello che si fa (Caino), il secondo è quello che si subisce (Giobbe). Il Male inferto, il Male sofferto.
Norberto Bobbio
«Spiegare Giobbe è come tentare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la premi, più velocemente sfugge di mano». Questa affermazione di san Gerolamo, il celebre traduttore della Bibbia in latino (la Vulgata), è molto adatta a introdurre l’acuto e stimolante saggio di Massimo Recalcati, autore del libro Il grido di Giobbe (editore Einaudi). È il racconto biblico imperniato sulla sofferenza umana, sulla violenza del male e sul senso dell’abbandono che incombe e si accanisce sull’innocente. Dio colpisce Giobbe non per punizione, perché nulla ha commesso, e neppure per vendetta, perché non aveva inferto dolore a nessuno.
Giobbe è il personaggio più “alto” ed emozionante della Bibbia che, con insistenza, si domanda qual è il senso del dolore che, come innocente, lo affligge. Il suo disperato e ostinato grido è una domanda di aiuto che, nel corso della narrazione, oscilla tra la bestemmia e l’invocazione a Dio che resta in silenzio, che non rivela l’ingiustizia divina, come afferma l’autore nella breve introduzione del libro, «ma è la condizione dell’esistenza del mondo».
Secondo Massimo Recalcati Giobbe, uomo di prestigio che suscita rispetto, che vive nella fede e dedito a fare il bene, è il protagonista della terribile prova a cui è sottoposto mentre Satana, il tentatore, e Dio, che resta nascosto e in silenzio, si sfidano. Giobbe, uomo sofferente, travolto dal male e colpito nei suoi affetti più profondi, diventa il simbolo dell’ingiustizia subita, della violenza «senza ragione», dell’umiliazione e dell’abbandono assoluto. L’uomo giusto, «integro e retto» è colpito scandalosamente dall’ingiustizia dell’eccessiva sofferenza e dalla disperazione del dolore.
Nell’esaminare il racconto biblico, dal punto di vista psicanalitico, l’autore utilizza le idee interpretative di Freud, Jung e Lacan. Recalcati si sofferma sul dramma del povero Giobbe colpito dalla sventura che, nell’improvviso e inaspettato capovolgimento della sua vita, passa da una condizione esistenziale favorevole e fortunata a una vita umiliata, «di scarto», di miseria, di infelicità, di tenebre, senza più beni materiali per sé e per i figli. Egli non vede più Dio benevolo, che lo sostiene e paternamente lo consola ma lo percepisce come persecutore, accusatore, calunniatore, il peggiore dei nemici, che si accanisce contro di lui, lo riduce a «polvere e cenere» e lo tratta come un empio.
Il perno centrale de Il grido di Giobbe non è solo l’ingiusta sofferenza umana, ma è anche il rapporto dell’uomo con Dio e con la sua giustizia. La fede di Giobbe, di fronte al silenzio e all’assenza di Dio, viene sottoposta a dure prove. Giobbe, colpito dalla violenza del male «nelle ossa e nella carne» e da un grumo di disgrazie, alza un disperato e struggente grido (Perché il giusto è colpito nonostante la sua santità?) al Padre per conoscere la sua colpa, capire le sue responsabilità e chiedere ragione del male che lo colpisce ingiustamente.
Nell’analizzare la sofferenza alla luce della psicanalisi, intesa come arte della decifrazione, lo psicanalista Massimo Recalcati afferma che la sofferenza non si localizza nel sintomo, ma coinvolge l’intera esistenza degli uomini. Il sintomo si intreccia sempre a una domanda di senso: Quale significato ha la mia sofferenza? Quale senso soggettivo posso attribuire al mio dolore? La tesi fondamentale della psicanalisi è che «il dolore parla» e che occorre interpretarlo, poiché il dolore ingiustificato e incomprensibile di Giobbe sfugge al senso e resta, illeggibile, indecifrabile e oscuro.
Giobbe, che cerca Dio con cuore sincero sopporta tutte le dure prove, ma perde la pazienza (che non si rassegna) quando gli si avvicinano i tre consolatori amici teologi, rappresentanti della teologia della retribuzione, per spiegargli con i loro discorsi che Dio ha comunque sempre ragione e loro ne sanno il perché. Ma Giobbe non intende discutere intorno al mistero di Dio ma esige di discutere con Dio, parlargli faccia a faccia.
Giobbe, uomo di fede e di preghiera, non cessa mai di interrogare Dio sul significato di quello che gli sta succedendo, sul senso del male, e grida perché Dio gli risponda sul perché l’innocente viene colpito dalla violenza del male e nello stesso tempo desidera spezzare il silenzio di Dio per non cadere nello sconforto, nell’angoscia e nell’abbandono assoluto.
Il racconto del Libro di Giobbe termina con la straordinaria apparizione di Dio che si svela e decide di rispondere al suo servo sventurato premiando così l’ostinata fede di Giobbe che, come creatura, di fronte all’opera creativa di Dio riconosce i suoi limiti e l’impossibilità di sapere e comprendere il piano provvidenziale di Dio.
Giobbe comprende e riconosce che l’atto della creazione dell’universo e del mondo da parte di Dio è un dono, un atto d’amore e che l’esistenza umana non è una colpa, non è solo dolore ma una donazione, una manifestazione dell’infinita potenza di Dio che lo risarcisce con la grazia per la sua illimitata fede
Come ha scritto il filosofo francese Paul Ricoeur «Non è una risposta quella che Giobbe ha ricevuto, ma il potere di sospendere la sua domanda, comprendendo che c’è un ordine incomprensibile».
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