Le opere e i giorni (Ἔργα καὶ Ἡμέραι, Erga kài Hemérai, in greco antico) è un poema di Esiodo, ascrivibile all’ottavo secolo a.c.
Nell’opera si descrive la necessità del lavoro da parte dell’uomo, consigli pratici per l’agricoltura e giorni del mese nei quali è necessario compiere determinate attività. Quest’oggi voglio ripercorrere con voi un tratto della mia storia che mi aiuta a riflettere sulla necessità di avere maggior riguardo nei confronti della nostra terra.
Mai più cittadino di me emigrò a Massa, oltre 40 anni orsono. Ho visto solo mia madre, Renata Ulivieri, piantava, nella casa di Fossola, a Carrara, piante di basilico nei vasi sul terrazzo. Mai vidi mio padre Bruno in atteggiamenti agricoli (anche perché non aveva un terreno su cui coltivare). Terreno che, se anche lo avesse avuto, forse, non avrebbe curato, memore di lavori agricoli, più o meno forzati, in farm australiane come prigioniero di guerra, durante la sua lunga prigionia in Australia dal dicembre 1941 al dicembre 1946. Senza nessun imprinting all’agricoltura, come ex universitario Università di Pisa senza laurea, con aneliti rivoluzionari di un decorso ’68, emigrai da Carrara a Massa nel 1980, per lavoro, iniziando come ausiliario socio sanitario in Pronto Soccorso e per amore. Mi stabilii e figliai a Turano di Massa, ove l’infermiera Maria Grazia, ora in pensione come me, mi ammaestra tutt’oggi in lavori sul campo, avendo ella la sapienza ereditata da sua madre, Dina, la contadina. Questa donna, diventata mia suocera, di piccola statura, a 9 anni, già accompagnava madre, sorelle al mercato, con un barroccio che doveva superare, con percorso inverso dal mio di emigrato, l’erta salita della Foce, recandosi, da Massa alla Piazzetta delle Erbe a Carrara, la mercanzia dell’orto. Poi vennero per lei, adulta, le vendite in piazza.
a Massa, a Battì del Barilo, poi all’ex Mercato ortofrutticolo ora sostituito da Piazza dei Narcisi, ribattezzata Piazza Enrico Belinguer, con vista verso il Castello Malaspina ed infine, negli ultimi decenni di vita, presso il Mercato Ortofrutticolo de “Le Jare”, a Turano di Massa. Io non ho mai visto lavorare così tanto in vita mia una donna come mia suocera. Da sposata, la Dina, si alzava in media alle tre e si recava al mercato, con il suo motorino carico di alcune cassette di basilico sul luogo di vendita, accompagnata con un’ape dai figli maschi e mia moglie. Diventato cittadino massese, anch’io mi cimentai in queste levatacce e, durante il giorno, imparai i rudimenti dell’arte agricola. Dina, che come nome, deriva dall’ebraico Dinah (che significa ”giudicata”), a me sembrò sempre espressione di “forza della natura”, ovvero che il suo nome fosse la prima parte della parola greca “dinamis” (che vuol dire forza). Ella, terminate le operazioni di vendita al mercato, tornata a casa, iniziava i lavori del campo. Li faceva tutti, tranne la vangatura che era “lavoro maschile”. Solo dopo aver preparato il pranzo che ella consumava con il gusto dei suoi prodotti dell’orto, si riposava un paio d’ore e poi ricominciava, sino a sera inoltrata, nell’opera di sistemazione del campo davanti casa, concimando, annaffiando e sistemando le verdure nelle cassette, destinazione mercato.
I miei lavori iniziati sul campo in questi giorni, in ritardo rispetto agli altri anni, colpevole anche Giove pluvio ostile, mi sembrano veramente una minima fatica per me, rispetto a quello che ho visto fare da Dina, la contadina, severa mia giudice nelle mie inesperienze agricole di cittadino carrarino. Arrivando alla conclusione filosofica, rapportata ai nostri giorni, ho notato, pur da osservatore inesperto, che le stagioni, anche in un breve range quarantennale, applicato alle sole colture in quel di Turano di Massa, sono davvero cambiate. Anche il luogo comune “non ci sono più le mezze stagioni”, viene oggi giustiziato “sul campo”. Nel maggio che mi ha visto, il 21 u.s., compiere anni 69, ho assistito, attonito, ad un mondo surriscaldato e super inquinato da veleni e plastica, violato da uragani ed invasioni di cavallette in Africa, topi in Australia. In questo mese che una volta veniva definito, con curioso accostamento, il mese delle rose, della Madonna e degli asini, ho visto in TV enormi iceberg staccarsi dal polo sud. Dalla mia latitudine al Nord della Toscana, mi è apparso che inverno, primavera, estate ed autunno si siano concentrate in un mese solo. Colgo segni tetri in tutto ciò, ma ritengo ancora utile faticare sul campo, per raccogliere incerti ma ecologici frutti, dipendenti dall’alterato ciclo stagionale. La Natura rovinata dall’uomo non potrò salvarla da solo, ma almeno cercherò di praticarle rispetto. Non vi è soluzione ad una fine annunciata di una Terra snaturata, se non si invertono i fondamentali di un folle sistema di produzione capitalistica. Il cerchio lo chiudo qua, analizzando la contraddizione delle contraddizioni, con utopico rispolvero di volontà di lotta per cambiare, ecologicamente, lo stato di cose presente. Ma sento tanta solitudine attorno a me. La rivoluzione non si fa solo impegnandosi per i “venerdì della Terra”, ma lavorando politicamente e culturalmente, per una Terra risanata, tutti i giorni dell’anno, a livello mondiale, europeo, toscano ed apuano.
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