I ragazzi che si amano è il monologo sul poeta francese Jacques Prevert (1900 – 1977), che Gabriele Lavia porta in questi giorni sulla scena del teatro Eliseo di Roma. Due ore di spettacolo con densi spunti e riferimenti filosofici e antropologici, che hanno coinvolto profondamente il pubblico per la sua profondità umana e culturale, tant’è che Lavia ha prolungato sponte sua la piece da un’ora e un quarto a due ore. Lavia ha osannato senza sbavature la poetica di Prevert basata sul concetto di amore come unica salvezza del mondo, di quell’amore che nasce spontaneo, a volte tradito, ma alla fine ricercato, che Platone nel Simposio fa dire a Parmenide: primo fra gli Dei tutti meditò Amore. È quell’amore puro, quell’amore giovanile, libero, espresso appunto da i ragazzi che si amano, che si ribellano alla gabbia degli stereotipi e dei pregiudizi e che esprimono, nella loro sana umanità, una gran voglia di libertà senza dare peso alla chiusura morale della gente verso la loro genuinità e il loro coraggio derivante dall’incoscienza e dalla loro innocenza – I ragazzi che si amano si baciano in piedi/ contro le porte della notte/ e i passanti che passano li segnano a dito/ ma i ragazzi che si amano/ non ci sono per nessuno/ ed è soltanto la loro ombra/ che trema nel buio/ suscitando la rabbia dei passanti/ la loro rabbia il loro disprezzo i loro risolini/ la loro invidia/ I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno/ Loro sono altrove ben più lontano della notte/ Ben più in alto del sole/ Nell’abbagliante splendore del loro primo amore -. È quell’amore in cui è insita la trasgressione trasmessa spontaneamente dal cantante Elvis Presley con le sue esibizioni che, nella prima metà del secolo scorso, iniziavano a compromettere gli stereotipi musicali vigenti, creando avversità nei ben pensanti perché costoro non sanno cosa sia la vita, cosa siano i giorni, cosa sia l’’amore. Una trasgressione che conduce a fortiori verso la luce l’uomo del mito della caverna platonico, che incatenato è costretto a vedere solo le ombre delle cose sulle pareti che gli stanno davanti. Verso quella luce che abbaglia, che illumina l’uomo come avviene con tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte/ il primo per vederti tutto il viso/ il secondo per vederti gli occhi/ l’ultimo per vedere la tua bocca/ E tutto il buio per ricordarmi queste cose mentre ti stringo fra le braccia. Poesia questa che, verso il finire dello spettacolo, Lavia modifica così: tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte/ il primo per vedere l’Universo/ il secondo per vedere il Mondo/ l’ultimo per vedere il tuo volto. E da questo volto svelare tutta l’umanità che è nell’uomo. Ed entusiasmante risulta per lo spettatore l’emergere dell’essenza della poesia, di quella poesia che Platone nel Simposio chiama poiesis: “Ogni atto per cui qualcosa passa dal non essere all’essere è poiesis, cosicché le varie operazioni dipendenti da tutte le arti sono poieseis e i loro artisti sono tutti poietai … Lo stesso vale per l’amore. In generale ogni desiderio del bene e della felicità si identifica per chiunque nel sommo e astuto amore; … coloro … che tendono e si appassionano a una certa forma particolare prendono il nome dell’intero, amore e amati e amanti.”
È la poiesis con cui Lavia si riallaccia all’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre, il cui pensiero si basa sull’esistenza (dal verbo ex – sistere, cioè emergere da), cioè a quella manifestazione d’una realtà che prima era implicita in un’altra, e che, emergendo, si rende visibile, e che solo per questo dà valore all’esistenza umana come base di riflessione, perché senza riflessione non può esserci scoperta della verità. Riflessione che porta l’attore a divagare scherzosamente sul famoso quadro di René Magritte “Ceci n’est pas une pipe” (Ciò non è una pipa) perché ceci si riferisce al quadro e non alla pipa – un caso di autoinglobamento (cioè il quadro che contiene se stesso) secondo D.L. Hofstadter in Godel, Escher, Bach: un eterna Ghirlanda Brillante – o perché, secondo altri, quella non è una pipa qualunque ma è la pipa di Magritte.
Nello svolgere la sua fervente declamazione, Lavia coerentemente mette in evidenza l’umanità dell’uomo che si esprime con la memoria del passato per non dimenticarsi delle proprie origini (Martin Heidegger) e dalla fuga dalla solitudine (E. Hopper) con l’abbraccio dell’altro con implicito riferimento ai migranti.
Lo spettacolo coinvolge e affascina perché conferisce armonia, quell’armonia tanto decantata dal filosofo di Efeso Eraclito (535 – 475 a.C.) nella dottrina dei contrari secondo cui non può esserci luce senza nebbia, come si evince dalle nebbie del porto (dal film Il porto delle nebbie di Marcel Carné,1938, e scritto da Prevert) o dai fumi prodotti dalle sigarette “Gauloises, papier mais” dei locali, dove Juliette Greco cantava Les feuilles mortes (le foglie morte): … Le foglie morte cadono a mucchi/ come i ricordi, e i rimpianti/ e il vento del nord porta via tutto/ nella più fredda notte che dimentica … .
Francesco Giuliano
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