di Gian Luca Campagna – Qualcuno, pomposamente, la celebra come la città dell’accoglienza. Altri, un po’ più realisticamente, la città della tolleranza. Forse, verosimilmente, Latina sarà stata una città che ha anticipato la globalizzazione con quel mix di razze, etnie e culture in uno spazio/tempo ristretto sin dagli anni ‘20-‘30. Sta di fatto che (forse) ha messo tutti d’accordo Emanuela Gasbarroni che a Latina c‘è nata e vissuta, anche se poi le vere soddisfazioni professionali vanno afferrate lontano dalla provincia. La giornalista (?, ma si dice così oggi?, considerato che si fa ormai comunicazione a tutto tondo, ed Emanuela s’è evoluta in regista e sceneggiatrice) ha regalato alla sua città giornate ricche di sentimenti e storia, emozioni e incontri, celebrando la cultura in una città sempre pronta a eruttare fermento rendendolo magma concreto. Emanuela s’è inventata ‘Le Giornate delle Migrazioni’ (19-21 ottobre), celebrando il Campo profughi Rossi Longhi, a 60 anni dalla sua nascita, o meglio trasformazione da caserma dell’82° Reggimento in campo d’accoglienza per i profughi di origine italiana cacciati dalle purghe titine e poi per quelli che fuggivano dalla ‘cortina di ferro’. Oggi, quella cittadella è diventata un cuore pulsante della formazione, considerato che le amministrazioni di centrodestra vi hanno creato una decorosa sede universitaria, collegata a La Sapienza di Roma. Ma facciamo un salto del gambero e torniamo alla storia del Campo profughi. Emanuela è partita da quello che la città offre, quello che la caratterizza, dagli spunti che fornisce, accantonando la favolosa epoca della bonifica idraulica sotto il regime fascista e osservando una storia più recente, ricca di profonda umanità. Ha accantonato, per scelta, una parte della storia del Campo profughi, abbracciando le vicende umane, malinconiche e dolorose, di chi scappava dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Romania, dalla Russia, da quella porzione di mondo dove concetti nati da ‘libera espressione’ non si potevano neppure pensare: Emanuela ha passato in rassegna nel docufilm ‘Fuga per la libertà’ luogo e anime di chi tra il 1957, all’indomani dell’invasione dell’Ungheria, e il 1989, caduta del muro di Berlino, è passato per Latina (qui sono stati registrati oltre 100mila rifugiati che scappavano dall’Est europeo). La giornalista ha tracciato un progetto che si è spalmato su tre giorni, coinvolgendo gli istituti superiori oltre che cittadini curiosi e appassionati, col Comune colpevolmente assente e distratto (una figuraccia istituzionale di questo genere non si ricorda qui in città): dai concerti alle conferenze, dalle proiezioni alle mostre d’arte il passaggio è stato automatico, momenti sublimati dalla presentazione del docufilm presso il gremitissimo cinema Oxer a Latina. Emanuela ha raccontato nella pellicola la sua ricerca dispendiosa, la volontà di far raccontare quel mondo che stava a Latina, di quegli uomini e quelle donne che lì erano transitati, alla ricerca di un mondo migliore. Infatti, a Latina i profughi erano di passaggio, stazionavano poco tempo e poi optavano per delle mete spesso fuori dal Bel Paese. Così Emanuela ha raccontato storie colme di emozioni, di vecchi fuoriusciti che oggi sono arrivati dal Canada, Stati Uniti, Croazia e Francia per partecipare agli eventi, raccontando dal vivo quello che avevano già ricordato nel film in una sorta di dèjà vu però a colori. Hanno ripercorso quelle strade, calpestato quei marciapiedi che li avevano accolti, hanno anche assaggiato quella mozzarella (vero, Mihai?) che in altre parti del globo non hanno la fortuna di mordere. Una polifonia di emozioni, di calore, di passione, di fratellanza, sensibilità. Quella sensibilità istituzionale che è mancata totalmente al Comune di Latina, che non ha salutato gli ex profughi, oggi cosmopoliti, che hanno attraversato oceano e frontiere per tornare ad abbracciare una terra che li aveva accolti e rifocillati, nemmeno con una targa o pergamena di (ri)benvenuto. Per questo Latina non è la città dell’accoglienza, come dice spesso il giornalista Emilio Drudi, così ha fatto bene Emanuela Gasbarroni a limitarsi a intitolare il festival alle migrazioni. Lei sì che ha dato una lezione a tutti.
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