In Italia calano gli omicidi, ma non i delitti che vedono vittime le donne. A dirlo è il Rapporto Eures, che pubblicato all’inizio di questo anno, mette in evidenza come la maggior parte di questi reati avviene tra le mura domestiche e per mano di compagni, mariti e fidanzati. Questo significa che la coppia si conferma come un luogo ad alto rischio. I reati però non accadono per caso. Gli avvisi ci sono sempre in quanto preceduti da maltrattamenti e violenze fisiche, minacce e stalking.
Una donna vittima di questi soprusi in famiglia difficilmente reagisce, quasi sempre sminuisce e spesso non denuncia. Cosa invece dovrebbe fare una donna per salvarsi? Quando accadde il delitto di Cisterna, intervistai Daniela Truffo, responsabile della casa Rifugio del Centro donna Lilith. Le chiesi che cosa sarebbe successo se la vittima si fosse rivolta a loro. La risposta fu, che molto probabilmente si sarebbe salvata in quanto loro, una volta capita la gravità della situazione, avrebbero messo subito in protezione la donna e in quel caso, anche le figlie. Mi spiegò infatti che la Casa Rifugio è un luogo sicuro e protetto in cui le donne che hanno subito abusi e maltrattamenti trovano aiuti concreti, immediati, informazioni e sostegno per la realizzazione di nuove prospettive di vita. Gli obiettivi di questo supporto sono il superamento del senso di impotenza che la violenza lascia e la ricostruzione della propria autostima.
All’interno della casa Rifugio, mi spiegò la Truffo, gli operatori lavorano alacremente per avviare un recupero di tutto quello che si è spezzato. Attraverso la rielaborazione della propria storia, le vittime hanno l’opportunità di comprendere i meccanismi della violenza che hanno vissuto e di sviluppare delle strategie per resistervi in maniera efficace.
Purtroppo però non sempre la donna denuncia e chiede aiuto. O se lo fa, la rete di sostegno non funziona come dovrebbe. E poiché come ha detto un sociologo francese, il dominio maschile sulle donne è la più antica e persistente forma di oppressione esistente, arriva il dramma, ultimo anello di una escalation di vessazione e violenze. Arriva quello che viene ormai da tutti definito…. femminicidio.
Femminicidio è un concetto che a molti dà fastidio e non piace. Ma chiarisce bene di quello di cui si sta parlando. La parola è stata introdotta nel lessico comune da Marcela Lagarde, antropologa messicana, che analizzando le violenze sulle donne del suo Paese, individuò la causa della violenza in una cultura “machista”. Nella parola femminicidio secondo la Lagarde oltre all’omicidio, sono comprese tutte quelle discriminazioni e pressioni psicologiche che la donna vittima subisce in precedenza. E’, infatti, “la forma estrema di violenza di genere contro le donne- spiega – prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa”.
Parole forti e accusatorie.
Rincara la dose su questo concetto Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore: “Quello del femminicidio è un fenomeno gravissimo, frutto anche di un’arretratezza culturale del nostro Paese”.
E’ la violenza di genere in ogni sua forma. E’ l’assoluto potere che l’uomo esercita sulla donna per modificare il comportamento a suo piacimento. E, è, ancora di più….l’assoluto controllo che annienta l’identità della donna, assoggettandola fisicamente e psicologicamente, economicamente, giuridicamente, politicamente e socialmente.
C’è voluta la Conferenza di Pechino per sancire che i diritti delle donne sono diritti umani e che la
violenza di genere costituisce una violazione dei diritti fondamentali delle donne. E lo Stato dovrebbe garantire una vita libera da ogni forma di violenza. Come? Proteggendo le donne che vogliono fuggire dalla violenza maschile, promuovendo una cultura che non sia discriminante, prevenendo la violenza da parte degli uomini, ma soprattutto perseguendo i crimini commessi.
Insomma, le donne stalkizzate vanno protette e non devono mai esse lasciate sole.
Poi ci sono le parole. Lo si è sempre detto che vanno cercate le parole giuste. E lo ribadisce ancora una volta Silvia Garambois, presidente di GIULIA, acronimo che sta per GIornaliste Unite LIbere Autonome, associazione nata nel 2011, a cui peraltro mi onoro di appartenere.
“Il racconto della violenza contro le donne, ha detto la Garambois, è un elemento delicatissimo sui giornali. Può aiutare la crescita culturale del Paese, per coadiuvare nell’affrontare questo fenomeno e allo stesso modo può infangare la dignità della vittima: tutto dipende solo dalla scelta delle parole, dalla narrazione…L’impostazione corretta e dalla parte di lei, le parole giuste, la scelta delle immagini, sono gli elementi che possono utilizzare i giornali per sradicare una cultura patriarcale, misogina e violenta.
GIULIA, insieme alla Fnsi e ad altre organizzazioni dei giornalisti , ha proposto dal 2017 il “Manifesto di Venezia”: un decalogo semplice, di buon giornalismo, perchè anche noi giornalisti non cadiamo nel rischio di rendere vittime una seconda volta le donne aggredite e uccise, usando le parole sbagliate”.
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