Cosa c’è di là. Inno alla vita

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La morte non è la nostra fine/…Fedele compagna, la morte ci costringe/ a scavare in noi, senza tregua/ per accogliervi sogno e memoria… (François Cheng)

           Nel suo ultimo libro, Cosa c’è di là. Inno alla vita (Società editrice Il Mulino), elaborato nella solitudine dell’esilio, Enzo Bianchi, il fondatore della comunità monastica di Bose, nella Premessa avverte i suoi lettori che, dopo aver scritto La vita e i giorni, il suo De senectute, ha sentito l’urgente bisogno di interrogarsi sull’attesa, sulla speranza e sui dubbi sull’aldilà della morte e sul significato dell’eternità.

Molteplici sono le domande radicali sul senso della vita che da sempre l’uomo si pone: «Chi sono? Perché vivo? Da dove vengo? Che senso ha la vita? Cosa fare della vita? Qual è il mio destino? Perché c’è il male? Perché ci sono la sofferenza e la morte? Che cosa c’è dopo la morte? Che ne sarà di noi dopo la fine terrena?

          Per Enzo Bianchi parlare e riflettere sulla morte, fine inesorabile di ogni essere umano, è parlare della vita, dell’amore, attraverso il quale l’umanità è capace di far arretrare e vincere la morte, che, come orizzonte della nostra esistenza, non solo non esclude un inno all’amore, ma lo esalta e gli dà la forza dell’immortalità.

L’autore nel volume espone una lucida e poetica meditazione sulla più ineludibile delle domande per approdare, attraverso raffinati e solidi argomenti, a una risposta centrata sull’amore, ragione di speranza per tutta l’umanità, anche dopo la vita terrena.

          La morte, come esodo dal mondo e limite inesorabile di ogni essere umano, e l’eternità hanno accompagnato l’esistenza di Enzo Bianchi fin dall’infanzia, da quando a otto anni ha perso la mamma. La sua profonda convinzione, dopo una vita travagliata e ricolma di sofferenze, è che «solo l’amore innesta nella nostra vita mortale l’eternità […] e che noi umani possiamo far crescere l’uomo interiore, cioè far crescere in noi la vita nell’amore, nella gioia e nella comprensione delle cose e nelle relazioni».

In maniera coraggiosa l’autore ritiene che è importante «imparare a morire», ad andare verso il declino esistenziale, ad accettare la fine, la morte, intesa come enigma per alcuni e come ingiustizia per altri. Come esseri viventi gli uomini sono gli unici che hanno la piena consapevolezza di pensare al limite del loro vivere e nello stesso tempo a vivere il tempo, che a loro è concesso, in maniera preziosa, coinvolgendo sé stessi nelle relazioni, negli affetti, nell’amore e nell’amicizia.

L’uomo, creatura vivente, nasce, cresce e muore, e avverte di essere un incrocio di tempo e di eternità, di luce e oscurità impenetrabili. La vecchiaia, ultima stagione della vita, è un tempo molto importante per apprezzare la vita vissuta, per prepararsi a morire serenamente, magari, tra le braccia e l’affetto delle persone amate.

Per l’autore è importante integrare la morte nella vita perché non possiamo pensare alla vita senza pensare alla morte, senza essere rimossa e negata, così come non è possibile pensare alla morte senza pensare alla vita. Pensare la morte genera in noi il senso della sacralità della vita e le conferisce il suo valore perché ci si rende conto che la vita è una e una sola. Per questa integrazione è decisivo ricordare in vita (genitori, fratelli, amici, “maestri”, che non sono muti ma hanno molto da dirci), coloro che in vita sono stati vicini a noi, verso i quali abbiamo nutrito affetti e avuto relazioni perché ci hanno generato, educato, cresciuto e guidato in questo mondo.

Nella fase finale della vita si avvertono con sofferenza le paure, gli incubi e i fantasmi della vecchiaia caratterizzata da malattie (demenza senile, Alzheimer…). La sofferenza fisica e psichica fa parte della vita che può essere accettata per amore della persona amata, anche se resta comunque insensata.

Gesù, uomo che ci ha preceduto, di fronte alle malattie, alla sofferenza e alla morte ha provato comprensione, compassione e commozione perché ha condiviso il dolore degli uomini e donne che ha incontrato; di fronte alla morte, nella sua estrema solitudine e profonda desolazione e tristezza, ha manifestato la sua paura e angoscia e, con animo spaventato e tormentato, ha pregato Dio, rimasto in totale silenzio.

Gesù morente, pur accettando le torture della flagellazione, i maltrattamenti subiti e il supplizio della croce, chiede al Padre di perdonare coloro che lo hanno ingiustamente condannato. Secondo l’autore anche per Gesù il dolore, la sofferenza e la morte sono un faticoso enigma, un mistero insondabile.

Scegliere di morire, darsi la morte secondo la nostra cultura è considerato un grande peccato che un tempo portava ad essere seppelliti fuori dal “campo santo” e secondo l’autore questo è un sintomo della mancanza di pietà e di misericordia e «una espressione di un’etica che non cercava di comprendere il dolore e la sofferenza umana». Il suicidio è un mistero incomprensibile, un enigma imperscrutabile che deve essere accompagnato dal silenzio, dalla preghiera (per chi crede) e dalla pietà.

Nell’approssimarsi all’esito finale della vita Enzo Bianchi, profondamente cristiano, instancabile cercatore di senso della vita e dell’aldilà, esprime il desiderio di non morire all’improvviso, in maniera inaspettata, ma di poter dire addio a quelli che restano, di morire accompagnato dalle persone che ama e che lo hanno amato, e di avere la possibilità di ricevere l’estrema unzione in vista della sepoltura, di ascoltare il Miserere di Giovanni Allegri e di essere sepolto nel suo paese, nella terra del Monferrato, rivolto verso l’oriente.

Secondo la “follia” della fede cristiana l’autore crede nella resurrezione del corpo e dell’anima di tutta la persona ed è convinto che l’amore vince la morte perché come è scritto nel poema dell’amore, Cantico di cantici, «l’amore è una fiamma divina» e come si narra nei Vangeli, nella vita di Gesù di Nazareth, l’amore umano, vissuto da lu, ha vinto la morte ed è risorto dai morti in un corpo non più soggetto alla corruzione.

Diverse sono le visioni dell’«aldilà della morte» fornite da Platone, Aristotele, Epicuro, Lucrezio e Lacan, e l’autore è convinto che i suoi resti mortali, dopo la morte parteciperanno alla comunione cosmica della vita e degli elementi della natura e spera di rivedere tutti i suoi amici nell’aldilà. Nel tentare di essere cristiano, Enzo Bianchi è rimasto sempre stupito del percorso di Gesù nel morire e si auspica di morire serenamente, di perdonare e di essere perdonato, di essere compreso e di essere ricordato con affetto dalle persone che durante la sua vita terrena ha amato ed è stato amato.

Per la nostra esistenza nel mondo saremo giudicati per il nostro operato da un Dio misericordioso che vuole che tutti gli esseri umani siano salvati; saremo giudicati sull’amore fraterno, sulle relazioni che abbiamo vissuto con gli altri e per il bene che siamo riusciti a costruire per i poveri, i bisognosi, i deboli, i sofferenti e per gli ultimi. Come esseri umani muniti di coscienza e dotati di ragione, consapevoli della nostra fragilità, della nostra ignoranza e della fatica nel vivere, saremo chiamati e giudicati per la nostra responsabilità mediante la quale abbiamo esercitato la libertà.

Nell’ultima parte dell’appassionante libro, carico di fiducia, Enzo Bianchi, come uno dei tanti viandanti di passaggio su questa terra, si sofferma sulla vita eterna che gli uomini desiderano e immaginano nell’aldilà della morte. Per lui la vita eterna è Gesù Cristo che ha reso Dio “buona notizia”, che lo ha evangelizzato. Per raccontare la vita eterna le Scritture utilizzano un linguaggio simbolico, evocativo e allusivo, parlano di paradiso «di un giardino senza autunno e senza inverno». L’autore spera e immagina di ritrovare, dopo la sua morte, nell’aldilà, chi lo ha amato, i suoi amici.

Al termine dell’arricchente lettura di Cosa c’è di là. Inno alla vita, non è possibile non tenere a mente le fiduciose parole scritte nella quarta di copertina: «Ormai vecchio, guardando al mio passato, mi accorgo che il cammino dell’imparare a morire è stato il cammino dell’imparare a vivere, nella convinzione che ciò che si è vissuto nell’amore resterà per sempre. Solo l’amore innesta l’eternità nella nostra vita mortale». Soltanto l’amore, che ci accompagna nella vita, permette di sostenere l’enigma della morte.

 


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