La speranza di una vita migliore per i più deboli. Questo rappresentava Marielle Franco e forse proprio per questo è stata uccisa lo scorso 14 marzo nelle vie Rio de Janeiro. L’attivista trentottenne, stava attraversando in macchina un distretto di Rio quando una vettura le si è affiancata e, dall’abitacolo, qualcuno ha sparato diversi colpi di arma da fuoco uccidendo lei ,il suo autista e ferendo gravemente un collaboratore.
Nata nel 1979 nel quartiere Marè, un complesso ai margini settentrionali Rio, la Franco sapeva perfettamente cosa significasse crescere in un’area di povertà e degrado.
Conosceva per esperienza diretta il malessere di un intero gruppo sociale messo da parte e mortificato, criminalizzato per una povertà ormai strutturale e costantemente sorvegliato da una polizia sempre più militarizzata.
Il fulcro della lotta sociale di Franco era la favela, la periferia degradata di Rio de Janeiro, luogo in cui lei stessa era cresciuta e da dove grazie alla sua tenacia era riuscita ad andar via.
Solo poche ore prima dell’agguato Marielle Franco aveva partecipato a una manifestazione per i diritti delle donne di colore, Jovens Negras Movendo as Estruturas, “Giovani nere che muovono le strutture”, organizzata dal suo partito, lo PSOL.
Una battaglia contro i soprusi che portava avanti da ormai anni, una persona “scomoda” per molti , un messaggio a non mollare che ora lascia in eredità a coloro che hanno riempito le piazze del Brasile in questi giorni per manifestare contro il suo omicidio.
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