Campo Profughi : una lunga storia di umanità varia, dove sono cresciuti artisti e atleti internazionali

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LATINA- Il campo profughi ha lasciato spazio alle sedi universitarie, a un campus dedicato agli studi. Molte testimonianze su quello che si considera un pezzo della storia della nostra città, un ricordo anche nel settore sportivo.

Dal 1957 al 1990 la città di Latina ha ospitato, all’interno della struttura, migliaia di profughi in arrivo dall’Europa Orientale, anche indocinesi e qualche cubano. La città è divenuta una meta, un punto di arrivo per coloro che sono stati testimoni viventi di un periodo storico denso di avvenimenti; dalla guerra fredda alla caduta del muro di Berlino, Latina ha costituito un ponte tra due realtà opposte: il socialismo reale dell’Europa orientale e la democrazia capitalistica dell’Occidente.

Molti profughi si sono inseriti nella vita lavorativa della città, nel settore delle costruzioni, tra i campi, nei traslochi come facchini, alcuni professionisti – specialmente nel settore medico – sono rimasti a vivere per sempre in città, apprezzati per la loro bravura e operosità. Per oltre trent’anni Latina è stata attraversata da una umanità varia e semiclandestina, portatrice di esperienze individuali e collettive, capace di raccontare un’epoca intera. Durante tutto questo tempo Latina, città essa stessa formatasi a seguito di grandi migrazioni e dall’incontro di culture diverse, ha sempre oscillato tra il considerare il Rossi Longhi una scomoda servitù voluta dal Ministero degli Interni o un osservatorio privilegiato (opportunità unica di toccare con mano una realtà altra, e di leggere la storia in prima persona). Sessantamila, in totale, i profughi transitati a Latina, sia politici che economici, che poi venivano destinati, entro sei mesi dall’arrivo, a Stati Uniti, Canada, Australia, Svezia, secondo le richieste di lavoro e le attitudini.

Di fatto a 24 anni dalla chiusura del campo è difficile rinvenire tracce di questo passaggio nel tessuto socioculturale della città, anche se non mancano interessanti tesi di laurea come quella proposta dallo studioso Carlo Miccio. È con questo obiettivo che ha affrontato il percorso di ricerca, le lettere dei profughi, i dati relativi ai flussi migratori: testimonianze durature di un arco di tempo che rischia di essere dimenticato.

Lo sport ha rappresentato un momento di unione tra capoluogo pontino e campo profughi. Si organizzavano accese partite di calcio tra “slavi” – venivano chiamati così – e giovani abitanti del vicino quartiere di Campo Boario, qualcuno giocava i campionati minori in formazioni della zona, con tanto di permesso della direzione. Tutti atleti molto dotati che spesso facevano la differenza in campo, in testa gli ungheresi, provenienti da una scuola di rara classe. All’interno del campo si organizzavano tornei, spesso finivano a male parole, vista l’accesa rivalità tra le diverse provenienze, talvolta scoppiavano anche incidenti di rilievo. Atanas Malamov, cestista bulgaro di Botevgrad, tesserato con la formazione del Balkan, lasciò i suoi compagni di squadra durante un torneo a Borgotaro, centro collinare in provincia di Parma. Dopo la trafila burocratica, Atanas arrivò a Latina e frequentò subito, nel 1971, il campo all’aperto della parrocchia Immacolata, segnava sul campo in cemento un cerchio con il gesso e tirava anche 500 volte dalla stessa posizione, in sospensione, plastica e morbida. Era un modello da imitare per costanza di allenamento e tecnica individuale. Lo notò l’avvocato Luciano Marinelli, insieme a Angelino Muzio, lo tesserò con l’Ab Latina, divenne subito un idolo degli appassionati. Malamov lasciò il campo profughi e andò a vivere alla pensione Bellavista, la federcanestro bulgara non concesse il nulla-osta per utilizzarlo creando qualche problema: aveva tradito gli ideali del comunismo. La sua bravura gli consentì di ottenere subito un posto nel quintetto base del club nerazzurro, insieme all’americano Jerome Bright, proveniente dalla base nato di Gaeta, dove prestava servizio militare. Atanas aveva una caratteristica che faceva divertire la gente, mentre giocava pretendeva di giocare lui il pallone e gridava al compagno di squadra “oba oba” , non si è mai capito il significato di queste parole. L’importante per il giocatore bulgaro, poi diventato italiano a tutti gli effetti, era fare canestro, ci riusciva spesso. Il mensile Giganti del Basket, una volta, gli dedicò un ampio servizio a colori, il giornalista scrisse: «in difesa è una mignatta», molti si misero a ridere, visto che poteva essere letto in maniera maliziosa.


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