“Attesa”, “speranza” e “paura” sono i tre sentimenti rilevanti che stanno travagliando l’umanità nel periodo della pandemia Covid-19.
“Attesa” è l’attendere, e il tempo che si attende …[e] anche, lo stato d’animo di chi attende, cioè il desiderio, l’ansia con cui si attende un evento – asserisce l’Enciclopedia Treccani, che esplicita anche il significato di “speranza” come sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera. La stessa Enciclopedia ascrive alla “paura” lo stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario o dinanzi a cosa o a fatto che sia o si creda dannoso: più o meno intenso secondo le persone e le circostanze, assume il carattere di un turbamento forte e improvviso, che si manifesta anche con reazioni fisiche, quando il pericolo si presenti inaspettato, colga di sorpresa o comunque appaia imminente. Da questa premessa si evince che la “speranza” altro non è che l’attesa del compimento di un’aspirazione, del desiderio che si avveri qualcosa di importante, che cessi definitivamente la paura persistente, in un ambito, quello pandemico, che ha annichilito già la socialità dove l’individualismo ha sostituito l’altruismo, la scontrosità ha rimpiazzato la cordialità, ecc.. A tal proposito viene incontro il famoso saggio che, anche se è di qualche decennio fa, risulta attualissimo: Al posto di Dio – Il bisogno del sacro nel sentire contemporaneo (Sguardi Frassinelli, 1997). In esso il filosofo francese Luc Ferry (1951) mostra la piena convinzione che l’essere umano, in completa solitudine, deve far fronte agli interrogativi più radicali dell’esistenza, alle sue esperienze cruciali: la morte, la sofferenza, il male ma anche l’amore, tant’è che nella parte introduttiva del saggio, riferendosi a Il Libro tibetano del vivere e del morire (Astrolabio, 1994) di Sogyal Rinpoché, cita la risposta che il Saggio dà alla giovane donna Krisha Gotami fortemente addolorata per la morte del figlio di un anno: «C’è un solo rimedio al male che ti affligge. Scendi in città e portami un granello di senape che venga da una casa dove non c’è stato mai un morto … ». Si può immaginare il seguito di questa triste storia, senza entrare nei dettagli, che porta alla finitudine, alla condizione di ciò che è finito, e alla questione del senso della vita diventata, oggi, una questione privata, sottolineando nel contempo che «La speranza non solo ci mette in uno stato di tensione negativa, ma ci priva anche del presente: preoccupati di un avvenire migliore, dimentichiamo che l’unica vita che valga la pena di essere vissuta, la sola che, molto semplicemente, esista, è quella che si svolge sotto i nostri occhi, qui e ora … . Sperare, per definizione, non significa essere felici, bensì essere in attesa, provare la mancanza, il desiderio insoddisfatto e impotente:“sperare è desiderare senza godere, senza sapere, senza potere”. Senza godere, perché si spera soltanto quello che non si ha; senza sapere, perché la speranza implica sempre una certa dose d’ignoranza rispetto alla realizzazione dei fini desiderati; senza potere, dato che nessuno si sogna di sperare ciò che gli è dato di realizzare pienamente». Così come accade a Remo, il protagonista del romanzo Il cercatore di tramonti (Il foglio, 2011), che «… meditava di cogliere l’attimo, di afferrare la gioia che ci viene conferita ogni giorno e di non fidarsi di ciò che il domani può preservare. Disperare e non sperare, in definitiva. Era questa la sua consolidata convinzione. La stessa speranza nel credere ad una vita migliore dopo la morte toglie vita alla vita stessa. La speranza fa attendere il domani continuamente e fa pensare che esso possa essere migliore di oggi. E, in questa attesa, si spreca parte della vita così come la si spreca quando si fa la fila alla posta per pagare un bollettino. La speranza è il giovane che aspetta la donna della sua vita. La speranza è il vecchio padre che aspetta il figlio che ritorni vivo dalla guerra. La speranza è un inganno. La speranza è tutto ciò che non ti fa gustare il momento di vivere intensamente. Invece bisognerebbe vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo».
Eppure la speranza è considerata l’ultima dea, come recita la massima latina: «Spes ultima dea est et omnium rerum pretiosissima, quia sine Spe homines vivere nequeunt (la Speranza è l’ultima dea e la più preziosa di tutte le cose, perché senza la Speranza gli uomini non possono vivere)». La speranza, infatti, è l’ultimo sentimento a morire al fine di mantenere viva la perseveranza di resistere agli eventi negativi, come narra il mito greco in cui la dea Speranza fu l’unica a consolare gli uomini rimanendo da sola con loro in seguito alla punizione che Zeus, il padre degli dei, aveva inflitto ad essi e, prima ancora, al titano Prometeo per il furto del fuoco.
Luc Ferry, nel citato saggio, allora suggerisce che «se dopo l’Illuminismo non è più possibile tornare a una cieca accettazione dei dogmi, e nemmeno trovare un senso al di fuori della trascendenza, l’unica strada praticabile è quella della spiritualità laica» creando un’etica fondata sull’uomo che stia fuori da ogni autorità religiosa.
Anche il filosofo olandese Baruch Spinoza (1632 – 1677) nella sua opera principale Etica (Utet, 2005), circa tre secoli e mezzo prima, sui sentimenti, e quindi anche sulla speranza e sulla paura, scriveva:«Chiamo schiavitù l’impotenza umana nel moderare e reprimere gli affetti; l’uomo infatti, soggetto ad essi, non è padrone di sé ma in preda alla fortuna in modo tale che a volte è costretto a seguire il peggio anche se vede il meglio». Il filosofo Remo Bodei (1938 -2019) nel suo saggio Geometria delle passioni (Feltrinelli, 2003), commentando il pensiero di Baruch, rileva che costui si schiera fortemente « contro la paura in quanto ostile alla ragione, e contro la speranza in quanto, di norma, fuga dal mondo, alibi della vita, strumento di rassegnazione e di obbedienza. Finché durano, paura e speranza dominano non solo il corpo ma l’immaginazione e la mente degli individui, gettandoli in balia dell’incertezza e rendendoli disponibili alla rinuncia e alla passività. Non appena cessano, essi ridiventano liberi».
Anche il filosofo, scomparso recentemente, Salvatore Veca (1943 – 2021) nel suo saggio Le cose della vita (BUR, 2006) usa la seguente metafora: «La barca che ha una falla dobbiamo saperla riparare durante la navigazione, senza poter contare nel rifugio in cantieri ospitali, al riparo».
Francesco Giuliano
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