“Di Camilleri mi piace tutto, tranne i romanzi”. Questo giudizio dell’allora editorialista del “Corriere” Francesco Merlo, siciliano oggi a “Repubblica”, ebbe tutto il sapore della stroncatura. I camilleriani inondarono di lettere rabbiose la redazione del giornale (i social, fortunatamente, erano di là da venire) difendendo strenuamente il papà di Montalbano. Lui, Andrea Camilleri, sorrideva sornione e quando Merlo passò a Rep gli disse :”Spero che tu voglia continuare a scrivere male di me anche sul tuo nuovo giornale”.
Non si considerava, a ragione, un grande scrittore. Quando si rivolgevano a lui chiamandolo “Maestro” rimaneva qualche secondo interdetto per poi rispondere :”Ma che vuol dire?”. Era un narratore orale e fantasioso che soltanto la nostra Grecia d’Occidente e cioè la Sicilia poteva donarci. Un aedo moderno che ha saputo costruire con genialità una lingua, un mondo, un codice dove il limes fra fiction e reale è del tutto indifferente .
L’anima del regista, dello sceneggiatore è in lui certamente preponderante rispetto a quella di puro narratore, come potevano essere i siciliani Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia.
Cominciò alla Rai, l’avventura di Camilleri con l’arte , incaricato di mettere in scena per il pubblico televisivo le commedie di Eduardo o, guarda caso, il commissario Maigret interpretato da Gino Cervi.
Scriveva romanzi che Feltrinelli, Bompiani e Mondadori rifiutavano, sistematicamente, di pubblicare. Intanto scopre Roma e se ne innamora. Con Mario Mafai passeggia all’alba in via Margutta e, raggiunta la casa-studio di un pittore, dalla terrazza scopre l’Urbe inedita: un sopramondo di panni stesi, profumo di cucine fumanti e gli schiamazzi dei fanciulli.
Con la moglie Rosetta abiterà per decenni in via Asiago, nell’elegante e discreto quartiere Prati, guarda caso a due passi da mamma Rai.
Il genio di Camilleri s’è visto quando al Teatro Greco di Siracusa, perfetta congiunzione di talento Umano e mistero divino dal cui impasto è nata una bellezza senza pari, ha messo in scena il “lo cunto de li cunti”, vale a dire le conversazioni di e su Tiresia.
Diventato cieco egli stesso a causa di un glaucoma, Camilleri s’è trasfigurato perfettamente nell’indovino Tebano. Diceva di sé, lo scrittore siciliano, che perdere la vista gli ha permesso di vedere più chiaramente cosa stava accadendo intorno a lui e a noi. L’unico rammarico era quello di non poter più godere della bellezza femminile, lui che era nato e cresciuto in un gineceo composto da mamma, suocera, moglie, figlia e la cameriera Italia.
Negli ultimi tempi appariva preoccupato per il clima d’intolleranza che si respira in Italia nei riguardi del diverso, dei migranti. Ripeteva che il consenso intorno al Salvini era lo stesso che si avvertiva nel 1930 di Mussolini.
C’è da augurarsi che Camilleri, su questo, non abbia profetizzato con la voce di Tiresia l’indovino.
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