“.. Ma fermezza verso che cosa? Fermezza verso l’inevitabile morte di Aldo Moro”. Così parlava Bettino Craxi, segretario dei socialisti nelle ore drammatiche del sequestro del Presidente della Dc. Isolato dalla convergenza Dc-Pci (eccezion fatta per Amintore Fanfani, dell’idea che bisognasse far di tutto pur di salvare Moro), Craxi riteneva che in guerra, come certamente era quella con il terrorismo rosso, occorresse trattare.
Vinse la cosiddetta “linea della fermezza” il cui epilogo fu il ritrovamento del cadavere di Moro nel bagagliaio della Renault rossa in Via Caetani.
In una Sala De Pasquale gremita, pur senza il refrigerio di un condizionatore, Enrico Forte ed il Senatore Luigi Zanda hanno ripercorso le tappe fondamentali della vita del Moro uomo politico, ma anche dell’accademico, dell’esegeta del pensiero di Agostino.
Clemente Pernarella ha dato voce alle idee e alla visione politica dello statista democristiano.
Mentre ascoltavo il pensiero andava ad un libro prezioso ed imperdibile di Leonardo Sciascia, che conservo nella prima edizione edita da Sellerio, “L’affaire Moro”. Il grande siciliano descrive mirabilmente il clima di quegli anni analizzando le lettere che Moro inviava dalla prigionia ai suoi “amici” ed alla sua “famiglia”.
Scrive Sciascia: “(Moro) ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata”.
Furono cinquantacinque giorni che, certamente, cambiarono nel profondo il corso della storia politica e sociale di questo Paese che, da allora, dovette essere senza la mite fermezza di Aldo Moro.
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