La Legge della parola (Conclusioni)
Il Cantico dei cantici è la Magna Charta dell’umanità. (Karl Barth)
Nell’ottavo capitolo del denso e impegnativo saggio, La Legge della parola, Massimo Recalcati affronta il libro sapienziale del Cantico dei cantici, poema straordinario, il più grande testo d’amore di tutte le letterature, il cui tema principale è l’amore nella sua incarnazione erotica. Un libro scabroso per la descrizione del corpo erotico, per la passione che anima la ricerca e l’incontro degli amanti. Per il teologo svizzero Karl Barth il Cantico dei Cantici è considerato «la Magna Charta dell’umanità».
Per Recalcati il testo biblico non è una allegoria che parla dell’amore tra Dio e l’uomo, ma dell’amore tra l’uomo e la donna. È un poema sulla natura del desiderio erotico, «un canto d’amore terreno», come sottolinea Bonhoeffer, che unisce tra loro gli amanti e l’amore nei confronti della Creazione del mondo e del suo Creatore.
Afferma l’autore «Attraverso l’erotica del desiderio si palesa una sessualità che non può essere disgiunta dalla Legge della parola. Esiste in effetti una lussuria della parola che attraversa in modo sublime tutto il Cantico». Gli amanti usano le parole che hanno il potere di fare esistere i loro corpi nell’amore. La Legge della parola coincide con la Legge del desiderio che anima la dimensione erotica della vita ed esclude la violenza perversa dei corpi. L’erotismo del Cantico è privo di senso di colpa, esalta i dettagli del corpo degli amanti (gambe, seni, capelli …) e li illumina grazie alla forza del desiderio.
Le riflessioni dell’autore su questo tema s’intrecciano con il pensiero di Lacan che teorizza che il desiderio, oltre a rivolgersi all’Altro, si rivolge al suo corpo con i suoi dettagli sensibili, rigettando così l’idea di un “saccheggio” del corpo desiderato. In tutto il Cantico dei cantici l’erotismo dei corpi degli amanti si unisce con la bellezza del creato che viene esaltato insieme all’amore rendendo grazia alla presenza della vita in tutte le sue forme (vegetativa e animale) sullo sfondo dello splendore della Creazione.
In riferimento alla dottrina psicanalitica di Lacan, che stabilisce una differenza tra bisogno e desiderio, Recalcati precisa nel Cantico dei cantici che il desiderio scaturisce da una mancanza, che deriva dall’essere stesso dell’uomo, ed emerge come un movimento erotico. I corpi degli amanti si attraggono non perché mossi dal bisogno della natura finalizzato alla riproduzione della specie, ma per raggiungere il loro godimento: è il desiderio che anima la relazione amorosa degli amanti.
L’amore, in tutto il poema, è apertura all’Altro, un donarsi senza riserve, un incontro e legame con l’Altro, è una relazione erotica e amorosa insieme, che si istituisce sulla reciproca corrispondenza tra i Due: «Il mio amante è per me e io sono per lui» (Ct 2,16).
Gli amanti aspirano all’unione, a un rapporto unificato, a essere Uno, che appare impossibile, irraggiungibile. La vera unione si gioca tra il desiderio sessuale (Eros) causato dal corpo erotico, e l’amore per l’Altro (Agape), come donazione, accoglienza, e trascende ogni riferimento alla vita coniugale e familiare. Nel Cantico l’amore trova il suo senso nella morte, nello svuotamento dell’Ego, e rende possibile all’umano una nuova forma di vita.
Nell’ultimo capitolo Giona e lo spirito di vendetta, Massimo Recalcati conclude la lettura di un’altra scena capitale dell’Antico Testamento e preannuncia che si cimenterà, prossimamente, con i Vangeli sempre alla luce dell’analisi dei grandi tempi ereditati dalla psicanalisi, in particolare sempre con riferimento alla teoria di Freud (il padre della psicanalisi) e di Lacan.
Nel libro biblico di Giona, lo scontroso e sconcertante profeta compare come una figura caratterizzata dalla sprezzante superbia, come un profeta che, destinato a portare la parola di Dio, è impegnato a rigettarla, a contraddirla e a contestarla. Nel racconto di Giona sono affrontati, in scene diverse, tre grandi temi essenziali della cultura biblica: la relazione umana con la parola di Dio, la solitudine e la preghiera, e infine una nuova versione della Legge, diversa dalla Legge del castigo e della sanzione.
La prima scena riguarda l’irruzione della parola divina, la chiamata perentoria che Dio rivolge all’ebreo Giona: «Alzati e va’ a Ninive», capitale dell’Assiria, perché la città, immersa nel peccato e allontanatasi dalla Legge di Dio, riparta, si rimetta in movimento e si rianimi ascoltando la voce della ragione (l’imperativo categorico kantiano, del Super –io freudiano), della chiamata della coscienza (che si manifesta nella vita interiore, nell‘in te redi – nel rientra in te- di Agostino) e della Legge del desiderio inconscio, la cui chiamata (richiamo) occupa un posto rilevante nell’etica della psicanalisi, perché trascende l’Ego.
Giona riluttante non ascolta e non risponde alla chiamata, ma fugge e vive la chiamata dell’Altro come un disturbo della sua quiete; Giona non desidera alzarsi, non vuole ascoltare la chiamata del suo stesso desiderio, ma vuole rimanere nel sonno, restare nell’oblio. La voce di Dio, che chiama Giona a predicare il castigo inflessibile, ha la stessa voce del desiderio che promuove il risveglio del soggetto affidandogli un messaggio che viene dall’Altro. Giona, fuggiasco, non ascolta, disobbedisce perché non ha alcuna intenzione di impegnarsi nella sua missione impossibile.
La psicanalisi, sulla fuga umana di fronte alla chiamata del desiderio, si è molto soffermata utilizzando il concetto di rimozione che «espelle qualcosa dalla coscienza». Ma questa fuga psichica da un nemico interno, dal desiderio inconscio, non è possibile perché, come spiega Freud, «L’Io non può fuggire da se stesso». Dio tallona Giona perché vuole che si assuma la responsabilità di salvare Ninive, perché la salvezza non è proprietà esclusiva del popolo di Israele.
La seconda scena descrive Giona che fugge e si ripara su una imbarcazione che viene colpita da una tremenda tempesta. Per placare le acque furiose del mare Giona, riconoscendo la sua colpa di non aver risposto alla chiamata del Signore, chiede ai marinai di essere gettato nelle acque per abbandonarsi alla morte. Dio, che non lo abbandona mai, gli invia una balena dentro la quale Giona vive per tre giorni e tre notti. Chiuso nel ventre del pesce Giona ritrova il desiderio di rispondere alla chiamata di Dio che gli restituisce la libertà e lo riporta all’aperto e così può riprendere ad ascoltare la chiamata di Dio e decidere di portare la parola del Signore a Ninive.
La terza scena riguarda la predicazione di Giona a Ninive che sarà distrutta perché ha trasgredito impunemente la Legge. La predicazione di Giona è animata da un evidente spirito di vendetta, nonostante il pentimento degli abitanti di Ninive. Ancora una volta Recalcati, utilizzando le categorie interpretative della psicanalisi, afferma che Giona, non sa perdonare e resta prigioniero del sonno stordito di un godimento chiuso su se stesso, senza legami con l’Altro.
Giona, di fronte alla decisione di Dio di sospendere la distruzione di Ninive, rimane in silenzio, si isola perché non comprende, per il suo tratto “infantile” legato alla centralità del suo Io, che la follia più grande dell’uomo è il chiudersi in se stesso. E Dio lo consola proteggendolo dal sole con un alberello di ricino, dimostrando così che la Legge divina esclude ogni forma di irrigidimento, e di intransigenza e si apre al perdono, all’amore. Per questo, conclude Recalcati, Giona è il profeta più umano tra tutti i profeti.
La Legge della parola è un saggio ampio e impegnativo di straordinario spessore da leggere attentamente e da studiare, perché affronta, con passione e rigore scientifico, tematiche ardue e complesse della psicanalisi riscontrabili nella Bibbia considerata, dal teologo ed esegeta Piero Stefani, «una straordinaria enciclopedia di storie e personaggi che hanno permeato nel profondo la cultura e la sensibilità dell’Occidente».
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