Sin dalla nascita, sia in famiglia e a scuola sia nella società in cui viviamo, ci viene insegnato ad osservare i fatti, cioè gli avvenimenti di cui veniamo continuamente a conoscenza. Ciò ci abitua a giudicare i fatti con certezza attraverso la loro conoscenza piena. Lo scrittore inglese Charles Dickens (1812 – 1870), che bramava una scuola non basata sui fatti, nel romanzo Tempi difficili (Feltrinelli, 2015) scrive che a scuola vengono insegnati i fatti perché solo con i fatti si educa la mente di un animale dotato di ragione; nient’altro gli tornerà mai utile. Un’educazione orientata esclusivamente sulla conoscenza dei fatti, tuttavia, crea una forma mentis impostata sui pregiudizi che è condizionante sull’apprendimento e sulla conoscenza. Il filosofo David Weinberger (1950), tecnologo della comunicazione, sostiene: Quanto di ciò che conosciamo dipende da ciò che ci piacerebbe credere? Quali sono i pregiudizi che ci impediscono di agire sulla base di ciò che sappiamo?
Quando nasciamo e acquistiamo coscienza della realtà veniamo a sapere che la vita avrà un termine con la morte. Una certezza questa che porta con sé l’indubbia incertezza della durata della vita. La vita ha un’origine – la nascita – e una fine – la morte. Ciò è l’unica cosa che sappiamo ma non conosciamo la sequenza della tappe, in quanto queste sono soggette al caos, quel che il filosofo greco Epicuro (341 – 270 a.C.) chiamava clinamen, cioè una deviazione che comporta una serie di concatenazioni di cause ed effetti materiali.
Nondimeno questo stato di conoscenza limitata ci accompagna in ogni momento della vita: quando dormiamo, quando usciamo di casa per andare a lavorare, quando abbiamo fame, quando prendiamo l’aereo, quando ci troviamo in vacanza, anche quando siamo dentro le mura domestiche, quando siamo colti da una malattia, e così via. Dickens, infatti, avvalorava l’importanza dell’immaginazione nella vita quotidiana per non ridurre la vita a una raccolta di fatti materiali e analisi statistiche per niente formativi, in quanto spesso ci si trova come essere dinnanzi ad un bivio e non sappiamo quale strada scegliere. Il filosofo e fisico francese Blaise Pascal (1623 – 1662) riteneva che di fronte ad una situazione nuova bisogna sempre ragionare sui rischi e sulle opportunità e solo dopo scegliere, evitando di farsi prendere dall’angoscia e dalla paura. Egli, infatti, nella sua opera Pensieri (BUR, 1999) scriveva che “Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti e instabili, sballottati da un capo all’altro. Qualunque scoglio, a cui pensiamo di attaccarci e restar saldi, vien meno e ci abbandona e, se l’inseguiamo, sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una fuga eterna. Per noi nulla si ferma”. Circa tre secoli dopo il fisico statunitense Richard Feynman (1918 – 1988) – Premio Nobel per la Fisica nel 1965 -, riteneva che “Lo scienziato convive quotidianamente con l’ignoranza, il dubbio e l’incertezza e questa, a mio avviso, è una esperienza fondamentale”, regola questa che si può estendere senza ombra di dubbio alla vita di ogni persona comune.
Il filosofo e matematico Bertrand Russel (1872 – 1970) riteneva che «La causa fondamentale dei problemi è che nel mondo moderno gli stupidi sono sicuri di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi». Egli, a tal proposito, raccontava la metafora del tacchino induttivista (chiamato così in quanto seguiva il metodo induttivo, cioè il procedimento che cerca di estrapolare una legge universale partendo dal particolare): «Fin dal primo giorno nel nuovo allevamento il tacchino aveva notato che alle nove di ogni giorno gli veniva portato il cibo. Da buon induttivista eseguì diverse osservazioni in una ampia gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e in quelli freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Finalmente la sua fede induttivista fu soddisfatta ed elaborò quindi un’induzione estrapolando la seguente legge: Tutti i giorni, alle ore nove, mi portano il cibo. Legge che purtroppo venne contraddetta la mattina della vigilia di Natale». Il filosofo austriaco Karl Popper (1902 – 1994), di pari passo, sosteneva che «un controllo su popolazioni comunque numerose di cigni bianchi non potrà mai provare la verità della legge “tutti i cigni sono bianchi”, perché basterà l’osservazione di un solo cigno nero per dimostrarla falsa».
Ecco, allora, che ritorna utile il pensiero del filosofo tedesco Immanuel Kant (1724 – 1804): L’intelligenza di un uomo si misura dalla quantità di incertezze che può sopportare, perché la nostra vita, purtroppo, è come il sistema che regola il funzionamento di un computer: il sistema binario basato sull’insieme numerico {0,1}. Essa è come se si svolgesse continuamente tra i valori di verità: lo 0 (zero), – il falso – e l’1 (uno) – il vero.
Sulla base di queste considerazioni estrapolate anche dall’estro di grandi scienziati e filosofi, che hanno segnato il corso dell’evoluzione del pensiero, gli esseri umani dovrebbero acquisire la piena consapevolezza, dopo più di un anno di pandemia Covid-19, che l’incertezza predomina sulla vita di ciascuno di noi e su tutto ciò che caratterizza le scelte politiche che agiscono a livello sia collettivo che individuale, e che essa comporta, sia nel tempo che nello spazio, uno stato permanente di conoscenza limitata.
Francesco Giuliano
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