Sono trascorsi due anni dalla scomparsa di Daniele nardi su una montagna che non perdona, una montagna assassina, ma per ogni scalatore c’è sempre una storia da raccontare. La vicenda luttuosa di Daniele Nardi, l’alpinista di Sezze scomparso sul Nanga Parbat a febbraio del 2019 insieme al suo compagno di spedizione Tom Ballard, è nota a tutti. Con i suoi 8.126 metri il Nanga Parbat è il sogno proibito di ogni scalatore, più dell’Everest e del K2, una vetta mai conquistata lungo lo sperone Mummery. Daniele Nardi e Tom Ballard inseguivano quel sogno e lì resteranno forse per sempre intrappolati nel ghiaccio. Sono tanti i motivi del travolgente successo sportivo di Daniele, unico “terrone” a scalare le grandi vette al mondo, la natura stessa della scalata, la sua filosofia, cioè il verticalismo, l’aspirazione d arrivare sempre più in alto con passione. Il fascino della montagna è indubbio, un fenomeno planetario verso il quale nessuna persona intelligente trova motivi di contestazione. Uno sport che si pratica con le mani e con il cervello, non esiste improvvisazione, è necessario un educativo rigore comportamentale. In quei giorni tristi mi trovavo Giordania, a tavola in gruppo tutti guardavano i telefoni per essere aggiornati, non erano pontini o lepini, arrivavano da ogni parte d’Italia. In quel momento mi sono realmente reso conto della popolarità dell’amico Daniele. “Per lui – ha raccontato la moglie Daniela – la montagna era emozione pura. Quando entrava in quell’ambiente si sentiva a casa. Non era ossessionato dalla vetta, ma dall’esperienze che gli dava”.
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