Sento l’esigenza, in questo periodo di frastuono politichese, di riportare alcuni tratti di ciò che scriveva il filosofo greco Platone nel IV sec. a.C., ne La Repubblica (libro I, 12): «… ormai è evidente che nessuna arte o autorità procura il proprio utile, ma, come abbiamo detto da tempo, procura e impone l’utile del suddito, mirando all’interesse del più debole, non a quello del più forte. … dove nessuno è disposto a ricoprire volontariamente una carica e a occuparsi dei mali altrui per raddrizzarli, ma chiede un compenso, perché chi intende esercitare bene la propria arte non fa e non impone mai il suo meglio, quando lo impone secondo la sua arte, ma il meglio del suddito. Ecco perché, a quanto sembra, chi è disposto a governare deve ricevere una ricompensa: del denaro, un onore, … quella per cui governano gli uomini più valenti, quando sono disposti a farlo. … Ma la pena più grave, nel caso non si voglia governare di persona, sta nell’essere governati da chi è moralmente inferiore; questo è il timore che a mio parere spinge gli uomini onesti a governare, quando lo fanno. In tal caso assumono il potere non come se fosse qualcosa di buono in cui possono deliziarsi di piacere, ma come se andassero verso qualcosa di necessario, poiché non possono affidarlo a persone migliori o uguali a loro. Forse, se esistesse una città di uomini buoni, si farebbe a gara per non governare come adesso per governare, e allora sarebbe evidente che il vero uomo di governo non è fatto per mirare al proprio utile, ma a quello del suddito; di conseguenza ogni persona fornita di discernimento preferirebbe ricevere vantaggi da un altro piuttosto che giovare al prossimo e avere per questo delle noie.
Va da sé che, oggi, in Italia la politica (etimologicamente, arte del governo della città) è in pieno fallimento; fallimento che affonda le sue radici nel periodo in cui incominciò la scomparsa di coloro che avevano fondato la democrazia o ne avevano rafforzato le peculiarità! Con esso la democrazia, che sta presentando la sua intima fragilità, cede il passo forse all’ignoto, perché una parte dell’elettorato, inconsapevolmente o perché sono state disattese le aspettative o per assenza di memoria storica, è propensa a farsi trasportare dal vento populista/sovranista, convinta che questa scelta sia la migliore. Contrariamente a ciò che è sollecitato dalla globalizzazione, c’è un trascinamento verso una situazione d’instabilità da cui sarà difficile ritornare indietro. Da questo fallimento politico, inoltre, ne deriva una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes) che fa ritornare in mente quel mostro biblico nominato Leviatano, che il filosofo britannico Thomas Hobbes (1588 – 1679) usò per intitolare la sua opera più importante (1651), dove espresse le sue idee politiche che possono essere compendiate nella seguente citazione riportata nella seconda parte del saggio: Autorizzo e trasferisco il mio diritto di governarmi a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu rinunci al tuo diritto su di lui e autorizzi tutte le sue azioni in modo simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona è chiamata Stato; in latino, Civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano, o meglio, per parlare in modo più riverente, di quel dio mortale a cui dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. In altre parole, tutti gli uomini dovrebbero rinunciare ai propri diritti naturali, tranne a quello della vita, sottoscrivendo un patto con il quale trasferiscono tali loro diritti a una sola persona, oppure a un’assemblea di uomini (?), che eviti homo homini lupus e garantisca la pace (?). Ebbene, tenendo conto di quel che succede attualmente nella Russia, in Egitto, in Arabia, nel Myanmar, in Cina, in Brasile, ecc. , queste idee nel mondo attuale sono state messe in pratica, stravolgendole e rendendole disumane e illiberali. Il filosofo francese Michel Onfray, nel suo saggio La politica del ribelle (2008),infatti, sostiene che Il Leviatano antico cambia forma e si manifesta nell’onnipotenza del pensiero unidimensionale, nella condanna a morte di ogni riflessione minimamente complessa, sovversiva, peggio ancora, nel recupero secondo le parole d’ordine del teatro mediatico circostante. … Il problema non è tanto il potere di Stato quanto lo stato del potere, la sua fluidità, il suo silenzio e la sua circolazione diffusa, i suoi flussi e i suoi danni, le sue costruzioni, gli edifici e le rovine; stato del potere che funziona sul principio delle categorie teologiche dell’onnipresenza, dell’onnipotenza, addirittura dell’onniscienza, poiché ogni potere vale come un sapere.
Francesco Giuliano
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